51. Eric

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Emilia tace.

Ci trasciniamo fino alle scale della metropolitana, ostaggi di un silenzio limaccioso; scivoliamo, siamo lontani. Obliteriamo senza entusiasmo e per qualche inspiegabile motivo il vagone puzza di zolfo esploso, plastica sciolta. Em siede distante in questa cassa vuota. Fissa le fermate, i puntini luminosi che ci separano da quello che ci aspetta da tempo.

«Perché non gli hai risposto?» caccia infine, sconfitta. È furiosa come quando... come mai è accaduto prima.

«Perché non voglio lasciarti».

Lei si regge al metallo sporco, accetta in silenzio i colpi inferti dai binari sconnessi.

«E forse è vero che non mi ricapiterà mai più, forse non incontrerò altri Larry Mitchell che vedono qualcosa nelle mie foto, ma non importa. Neppure tu mi ricapiterai mai più, Em. Ed io l'ho sempre pagato, il prezzo delle cose».

Le cerco il respiro, il petto che si solleva e si inabissa minaccioso sotto la maglietta grigia, come se quello stomaco potesse improvvisamente inghiottirci tutti. Ingurigita l'aria, i polmoni sconfitti da un dolore che ho solo intuito, che sta per mostrarmi.

«Eric...» chiama, ogni lettera intrisa di rimprovero, mortificazione, speranza. E dopo un tempo indefinito lei si alza, pulisce i palmi sui jeans slavati, siamo arrivati, scendiamo qui.

Tra la Quinta Strada e Madison Avenue svetta il Monte Sinai. A ridosso di Central Park, nella calura estiva, l'ospedale più importante dello stato accoglie nel suo ventre i figli benestanti di questa città, quelli che l'assicurazione ce l'hanno buona.

Em mi cammina davanti, i passi misurati di chi conosce bene la strada.

Fatico a starle dietro, non capisco cosa diavolo ci facciamo qui, se andiamo a morire o a salvarci. Mi affretto e lei inchioda, si schianta contro il mio petto. Implora a voce bassa, s'è fatta triste come un necrologio.

«Vattene adesso, per favore».

Le prendo il viso, strofino la mia fronte alla sua. Va tutto bene, se c'è tutto da temere allora è importante, siamo nel posto giusto. Em trema come un pulcino appena nato. Fa paura questo nostro amore, come un figlio che da quando ti nasce tu crepi ogni giorno, tutto il mondo è pericolo, costante minaccia.

Emilia mi fa strada fino al banco dell'accettazione.
Tira fuori il maledetto tesserino, quello che ci ha fatto perdere tempo, che ha rotto il vaso cinese del signor Pearce. Vaffanculo, Larry Mitchell.

«Wright, ho un accompagnatore».

Em parla all'uomo seduto dietro il bancone. È in ordine e pettinato come in una serie televisiva, di quelle in cui per i pazienti c'è giusto il tempo tra una scopata e l'altra.

«Documenti, per favore».

Dice a me? Em mi fa un cenno e rinsavisco.

Cerco il portafogli, mi assale il terrore osceno di averlo dimenticato, che la patente sia scaduta; e cerco di ricordare se sono immigrato, se potrò entrare. Il nostro destino dipende da questo, un pezzo di plastica nella tasca dei miei jeans.

La patente non si trova.

Mi sudano le mani, scappa tutto come in una maledetta commedia - i biglietti da visita, la fottuta tessera della metro. Em non mi guarda, non mi aiuta. Sta pregando, la stronza, che io l'abbia perduta. Mi vuole senza nome, fuori dai coglioni; ci ha ripensato, adesso che sa, che pensa di sapere cosa merito e cosa voglio, ha deciso di sbattermi fuori.

«Dia a me, lasci che l'aiuti».

L'uomo ha la pazienza di un santo. Quasi gli lancio addosso il portafogli, trovala, per amor di Dio, e lui non si scompone, anzi mi ascolta. Tira fuori il documento come un coniglio dal cappello ed io vorrei baciargli le mani mentre inserisce il mio nome al terminale. Adesso anche io faccio parte della pièce. Em guarda altrove, un cartellone che reclamizza una polizza sulla vita, certe cure farmacologiche prodigiose.

«Bene. La strada la conosce, signorina Wright. Diciannovesimo, ascensore est. Ah, dimenticavo, Francine ha già portato i fiori».

*

Non sono mai stato in un reparto di rianimazione.

Quando l'oceano ce l'ha restituito, papà era ormai livido e gonfio di alghe. Siamo passati dalla spiaggia all'obitorio, e questo è quanto.

Ai primi strappi sul mio corpo spaccato, quando hanno iniziato a ricucirmi come un sacco, ho imparato a conoscere gli ospedali; sono frenesia, grida di speranza e disperate, rotelle in corsa verso la sala operatoria, preghiere recitate a voce altissima.

E non è vero che gli ospedali puzzano; quello che si sente è il profumo di Dio.

In questo reparto, invece, non c'è niente. O forse sì; è un sentimento rassegnato, la placida accettazione di chi lava questi morti rimasti in vita, appesi al cielo come una pioggerella esitva.

Ancora una volta, Em mi fa strada.
Fluttua sul pavimento incerato come chi ha imparato a non fare rumore. Al ricevimento, un'infermiera magrebina ci sorride, saluta Em come una vecchia compagna di liceo.

«Emilia! Pensavo non venissi più. Francine ha portato le gerbere, sentirai che profumo».

«Ciao, Jesi. Lui è mio fratello Eric».

Jesi mi sorride, ha gli occhi belli e vitali di chi lavora qui da poco.

Ci immergiamo nel silenzio, il corridoio è una sfilata di porte aperte, sipari sulla morte, sul bip costante dei macchinari. In questo posto non c'è niente da temere, il peggio è passato, bisogna solo accettare.

La nostra meta è la camera 102.

«Ciao, John».

Emilia sorride ad un uomo che non si sveglierà.
Il suo saluto rimbomba contro le pareti candeggiate. Giace immobile tra le lenzuola sottili, la sua presenza nel mondo segnalata da un sono pungente come uno spillo nell'orecchio.

Em conosce bene questa stanza, ci fluttua dentro come fosse un'infermiera, scosta le tende, cambia l'acqua alle maledette gerbere. Si affaccenda come una vedova speranzosa, così diversa in questi vestiti ordinari, fuori dai suoi tailleur grigi e spietati, spigolosi come coltelli.

Non mi sono mai sentito a disagio in un posto, nemmeno in mare, nemmeno in quell'obitorio ma qui, la morte aleggia indefinita tra i vivi, camuffandosi di respiri macilenti, secreziosi involontarie.

Em accarezza le lenzuola, gli sistema le coperte ma sta attenta a non toccarlo.

Ed io so che è questo il suo segreto, il suo più grande dolore, e nel suo tragico orbitare attorno ad un corpo privato di coscienza, colgo tutto il tepore della sua anima in rivolta.

Lo vedo nelle sue iridi imploranti, gonfie di lacrime, che a lei importa da sempre, e niente potrà mai cambiare le cose.

Che è finita nelle mani dei bracconieri, che hanno rovesciato i suoi sogni e li hanno sgozzati, sviscerati e appesi ad essiccare, e che lei si è convinta che il mondo sia questo, ma prima che possa screpolarsi per sempre c'è qualcosa che devo dirle, lei deve sapere.

«Em, quello che sai di New York non è New York».

Quel che resta della città [Em & Eric]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora