11. Eric

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New York non dorme mai.

Chiunque non sia eccessivamente distratto può udirla sospirare, impaziente, al tramonto. Aspetta che il buio cali su di lei, timido amante, per accarezzarla fin dentro ai vicoli più remoti e dimenticati. Al suo tocco voluttuoso la Città si accende, ebbra e vorace, infusa di vita nuova. Ed ha inizio lo spettacolo.

Dalla finestra della mia camera da letto si vede la skyline: rifulge come un faro nella tempesta e chiama a sé i suoi figli perduti come una caritatevole madre. Viaggiatori, tossicodipendenti, nullatenenti, poeti da strapazzo e venditori di hotdog, uomini soli e donne vogliose, amanti delusi e mogli tradite, alcolizzati e cattolici, antiabortisti e omosessuali, scippatori e assassini, predicatori e animalisti. Non fa differenza. La carne è carne e agli occhi di una madre non esiste vizio né peccato, solo misericordia.

Certo, c'è chi definirebbe New York una discarica a cielo aperto, ma la verità è che dai diamanti non nasce niente. Accidenti, come rimanere impassibile davanti al fervore che impregna l'aria di questo assurdo teatro dell'umanità? Mentirei se dicessi che non mi eccita da matti la rapidità con cui tutto accade lungo queste strade ingolfate di pattume e automobili e sogni infranti. Un purgatorio dominato dal caos, dove mettere il naso fuori di casa al mattino è un po' come giocare alla roulette russa: il tamburo gira, baby! Bacia tua madre e trovati un Dio da pregare, perché in questa palude d'asfalto gli alligatori non trovano requie.

Amo da impazzire New York, ma l'altro ventricolo del mio smanioso cuore appartiene a San Diego: la mia città. È lì che ho lanciato il mio primo strillo quando, inaspettato e veloce come un proiettile, sono schizzato fuori dall'utero di Céline durante una gita in barca: un peperone urlante in mezzo all'oceano. Me ne innamorai ancor prima di incontrare lo sguardo di mia madre. Lei sostiene che, quel giorno, il mare mi rapì e mi maledisse, segnando per sempre il mio destino. Appartenevo all'oceano più di quanto appartenessi a lei, proprio come mio padre. Il mare ha rubato mio marito e ora vuole prendersi il mio bambino diceva, quando io e papà uscivamo all'alba per calvacare le onde. Un giorno accadde per davvero. Quello fu l'ultimo giorno in cui vidi mio padre.

Per quanto triste, ho una casa laggiù. Straborda di cose vecchie e fragili che non posso permettermi di buttare, cimeli di una vita che non mi appartiene più ma di cui non potrò mai disfarmi, proprio come la polvere che la invade. Quella casa - la nostra casa - ora è abitata dai fantasmi e dal silenzio.

Céline vorrebbe che la vendessi; vorrei tanto renderla felice ma non posso. Non posso chiedere a mia madre di ricordare ma lei non può obbligarmi a dimenticare. Cos'è un ricordo se non rimane nessuno a tenerlo vivo? Una bolla di sapone. Una falena all'alba del nuovo giorno. Tengo viva la fiamma anche per lei, soffro anche per lei, ma è come aggrapparsi ad rovo: mi sanguinano le mani eppure non posso mollare la presa.

Certe notti sogno di essere nella mia stanzetta, avvolto dalla trapunta patchwork che mia madre ha cucito per me quando ero ancora il suo prezioso bambino. Mi ha sempre amato, ma ho smesso di essere il suo bambino tanti anni fa. Un bel giorno mi sono svegliato ed il mondo che conoscevo non esisteva più, così ho smesso di avere dieci anni perché per lei dovevo averne quaranta. Avrei voluto continuare ad essere il suo bambino ancora per un po'.

Certe notti, quando mi rigiro insonne sul materasso bitorzoluto di una camera d'albergo o nel caldo letto di un'amica generosa, il dolore è così forte che vorrei strapparmi il cuore dal petto e calpestarlo fino a ridurlo ad una poltiglia. A volte piango e torno lì, davanti alla casa in cui abbiamo vissuto - in cui lui ha vissuto - ma non ci entro. Mi assicuro che ci sia ancora, che sia esistita davvero. E torno alla mia vita.

Em russa. Si è addormentata sul mio letto come una bambina esausta dopo una giornata al luna park e non riesco a svegliarla. Una parte di me vorrebbe farle uno scherzo - tipo metterle il ghiaccio nelle mutande come ha fatto una volta facendomi pisciare addosso - ma non ce la faccio. Digrigna i denti al punto che ho paura di vederli schizzare fuori dalla sua bocca come schegge. 

Cos'accidenti hai da essere così arrabbiata, Em?

Magari è questa furiosa città a farti arrabbiare. Magari è l'aver scoperto che il lavoro che insegui dai tempi del liceo è in realtà una merda e che non ti renderà mai felice, ma dove lo trovi il coraggio di mollare dopo tutto il sangue ed il sudore versato? Dove la trovi la forza di dire a te stessa che non è così che vuoi finire? A parlare di numeri e denaro e gente in esubero da liquidare neanche fossero stronzi da buttare giù per il cesso il prima possibile. 

Vorrei raccoglierti e portarti lontano, ma ho paura che la rabbia sia dentro di te. Un rampicante velenoso arpionato alla tua cassa toracica. E se c'è una cosa che ho capito è che puoi andare anche in capo al mondo, ma da te stesso non puoi fuggire.

Rileggo la lista che ho stilato e sorrido.

Spiegami perché lo stai facendo.

Perché hai bisogno di me. No, chi voglio prendere in giro. Perché ho bisogno che tu abbia bisogno di me. Perché ho bisogno di te. Al diavolo, com'era? Se puoi fare qualcosa di buono per qualcuno sei moralmente obbligato a farlo? Il tempo gioca brutti scherzi e non sono più tanto sicuro che sia stato mio padre a dirmelo. No, in effetti era lo zio di Peter Parker. Zio Ben, cazzo! Il vecchio zio Ben morto sul ciglio della strada. Beh, non sparo ragnatele, ma ho fatto un paio di lezioni di parkour e comunque questa roba mi piace.

Quel che resta della città [Em & Eric]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora