39 Corsi e ricorsi

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Immobile, sentì la paura avvolgerla fino alla punta dei piedi. No, non era sola Sveva: l'angoscia, il panico e il terrore si erano impossessati di lei, del suo essere, e la tenevano inchiodata al suolo a guardare inerte quella scena terribile. Una lotta impari, una battaglia dall'esito tristemente immaginabile.

E come un serpente arriva a stringere così tanto forte la sua preda da vederla finire, così lei si sentiva intrappolata nella morsa dei suoi timori, senza nessuna via di scampo. Anche se non poteva percepire il sibilo rumoroso e vederne le zanne, lo sentiva scivolare dentro di sé, nel profondo delle sue viscere, il perfido: perché era un sentimento insidioso, insistente e pericoloso, letale come un cobra, capace di uccidere in pochi minuti con un solo morso.

Mentre lottava con tutte le sue forze contro la sua coscienza, vide a un tratto quella donna sollevarsi e andare via, senza pudore o forse senza pentimento. Quella stessa persona che fino a qualche attimo prima lei stessa, rischiando la vita, aveva tentato di difendere da quei due esseri spregevoli, correva disperatamente, incurante di lei e di Rashad. Non un indugio, nessuna indecisione.
Cosa sono i sentimenti umani, se in un momento appaiono forti e l'attimo dopo così instabili e precari?
Lo scoprì a sue spese Sveva: tanto coraggio seguito da così tanta viltà.

Ma forse era normale temere per la propria vita, forse non avrebbe dovuto giudicare... 

Doveva e poteva farlo anche lei, scappare?
Era l'unica cosa che rimaneva: un sensazione nuova e aberrante che la richiamava alla realtà e nel contempo la induceva a intraprendere la sola strada perseguibile, la fuga. Non avrebbe potuto fare scelta peggiore - questo sì, era ovvio - ma ugualmente capiva che non c'era altra alternativa contro quei due energumeni: ci aveva già provato.

Sconfitta, dunque, iniziò a correre, piangendo. Era la più spregevole delle creature, se ne rendeva conto: non sarebbe più stata in grado di guardare in faccia se stessa, né tanto meno quell'uomo, Rashad, se il destino glielo avesse permesso. Aveva ceduto alla paura.

L'aveva insultata Rashad, psicoanalizzata, aveva riso delle sue debolezze, l'aveva offesa e si era preso gioco di lei.
Ma era andata davvero così?
Era successo davvero questo?
Era insolente ma l'aveva fatta anche ridere. Che fosse una donna rigida, che non sapesse scherzare, che nell'ultimo periodo non facesse altro che piangersi addosso, nascondendosi dietro rimedi omeopatici, quello era chiaro a tutti.
Cosa la indispettiva di lui?
Il suo essere così tracotante o piuttosto l'effetto che quell'uomo aveva su di lei?
Perché già, lui era stato l'unico estraneo che aveva avuto il coraggio di mettere a nudo le sue debolezze, l'unico che si era preso la briga di dirle che non faceva nulla per superare le sue difficoltà, il solo che l'avesse offesa senza temere le conseguenze, ma anche colui che si era preoccupato di lei. A ben vedere l'aveva umiliata ma anche ascoltata e finanche consolata. Sveva aveva persino dormito sulla sua spalla.

Capace di farla sorridere, Rashad si era dimostrato un puro di cuore con i più deboli ed era stato persino un gentiluomo quando lei, comportandosi da perfetta villana, lo aveva lasciato in asso per correre tra le braccia di Marco, che forse, e per motivi inspiegabili, nemmeno l'avrebbe più voluta. Fermò la sua corsa, sì. Prese fiato.
Cosa diavolo stava facendo?

Qual era la vera interpretazione dei fatti?
Non le importava più: il viscido era andato via, quel pensiero malvagio l'aveva abbandonata. Si voltò indietro e incominciò a correre per aiutarlo, sollevata di sentire la sirena spiegata della polizia. Lui era lì, in piedi, con la spalla insanguinata che pareva aspettarla. Parlava con i poliziotti: sembrava volersi liberare da quelli per andare da lei. Si avvicinò Sveva, ma fu bloccata per espletare gli ultimi adempimenti: gli occhi sempre fissi su di lui.

Le luci, l'arrivo immediato dell'ambulanza, i primi soccorsi, il verbale, le domande dei volontari: un vero incubo, ma lo sguardo era sempre lì. La strada, qualche minuto prima buia, era talmente illuminata da mettere i brividi. I primi avventori, incuriositi, avevano fatto capolino per domandare, guardare. Qualcuno, informato, le aveva dato una pacca d'incoraggiamento. Lo psicologo aveva avuto la meglio su quei brutti ceffi, pur riportando qualche piccolo taglio. Lo vide avvicinarsi: avanzava a rallentatore.

Le appariva diverso: come un gigante buono, impavido, si dirigeva nella sua direzione, gli occhi lucidi, un sorriso enigmatico.

«Se proprio doveva stalkerarmi poteva scegliere un orario migliore per farlo: avrei evitato tutto questo. Ma ormai ho capito che a lei piacciono i metodi tradizionali. Fugge per essere inseguita. Lo ha fatto a Pisa, ha continuato a farlo anche qui, ma evidentemente questi escamotage non funzionano, non almeno con me che sono abituato a essere rincorso.»

«Cosa... », fece per rispondere Sveva...
Ma non ne ebbe il tempo perché Rashad l'attrasse forte a sé, stringendola tra le sue braccia. E in quelle si perse e ogni obiezione, ogni altra reazione, fu messa a tacere irrimediabilmente, inaspettatamente.

«Allora, mi dica, le piace la mia targa?» domandò scostandosi da quella.

«Sì, ma io...»

«Non riusciva a prendere sonno, i suoi "pensieri", come li chiama lei, le davano il tormento, e allora ha pensato bene di placarli venendo da me.»

Arrossì Sveva, ma non se la prese: aveva intuito che era un suo modo di affrontare la vita e le persone... e che forse, dietro quella roccia, si nascondeva un animo buono.

«Sì, a dire il vero ho bisogno di lei.»

«Ne ero più che convinto. Tutti abbiamo bisogno di qualcuno, non trova?»

«Sì, ma non è per me che sono venuta».

«Certo, certo», rise di gusto,« è quello che vuol credere e io lascerò che lei lo faccia».

Ma lo psicologo aveva la capacità di farla esplodere, e lo avrebbe fatto probabilmente se non fosse stato per Betta che, sopraggiungendo all'improvviso, prima si assicurò che la sua amica stesse bene per poi correre tra le braccia di Rashad.

Non poteva credere ai suoi occhi: con quanto affetto, con quale slancio Betta si prodigava per accertarsi delle condizioni del bel dottorino. Quella elargizione infinita di moine e ammiccamenti era insopportabile.

E mentre quella, così accorata, lo assisteva, gli parlava, lo sguardo di lui, soddisfatto, la trafiggeva, infliggendole numerose pugnalate al petto.
Quella scena era odiosa e andava interrotta.

«Ma come hai fatto a capire che fossi qui?» si spinse Sveva.

«Sei prevedibile, cara...»

«Come un libro aperto...» conclusero in coro, ridendo e scambiandosi sguardi d'intesa.

Ma da dove nasceva quel feeling, quella complicità?

Cosa c'era da ridere poi?

Se non altro la tragedia sfiorata era passata in secondo piano.

«Andiamo!» fece all'amica prendendola per un braccio, mentre quello continuava a salutarla con la manina, inebetito.

Non poteva crederci: avevano evitato un brutto guaio e quei due erano lì a flirtare.

L'incertezza di Sveva.Donde viven las historias. Descúbrelo ahora