- 𝙿𝚛𝚘𝚕𝚘𝚐𝚘 -

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[...]

Lo stomaco sembrava rimpicciolirsi sempre più.
Il dolore lo attanagliava, come se la fame lo stesse premendo fortemente contro il pavimento lurido. Non riusciva nemmeno a sollevarsi. Un freddo pungente faceva capolino di tanto in tanto, in sintonia con il vento che, attraverso le sbarre e oltre i pertugi dei mattoni, strisciava, rumoroso, e gli entrava finanche nelle ossa. I morsi della fame lo privavano addirittura del respiro, perché nell'incamerare aria pensava inevitabilmente al pane, alle razioni che erano soliti dare loro i superiori.
Ingoiò della saliva, sentendo un coniato di vomito minacciare di lasciare la sua gola. Aveva tentato di prendere sonno, cercando di ignorare il bisogno di bere e mangiare, ma era stato difficilissimo, come se qualcuno gli avesse chiesto di ignorare un sassolino nelle scarpe, a patto che ne potesse avere un paio.

Un rumore di passi improvviso gli fece drizzare le orecchie, pronte a captare qualsiasi suono inconsueto proveniente dall'esterno della propria cella. Quando infittì lo sguardo, osservando il corridoio in pietra che conduceva al resto della struttura, sentì il cuore sussultare nell'incrociare un paio d'occhi azzurri.
Puntò le ginocchia a terra, strattonando le catene e allungando lo sguardo per osservare meglio quella figura, talmente sfocata da sembrare un sogno ad occhi aperti. La pelle diafana fece capolino sotto la calda luce delle fiaccole ai lati del corridoio; i ciuffi neri che risplendevano e coprivano parzialmente quella fronte corrucciata, sfondo di quegli occhi profondi, ricchi di significato che si guardarono attorno con circospezione, prima di concedergli totale attenzione.

«Levi...!» riuscì a dire con chissà quale forza, prima di gettarsi tra le sue braccia, schermate dalle sbarre nere e fredde.

«Eren!» fece eco lui, affondando il naso tra i suoi capelli e circondando le sue spalle graffiate, sporche, con le sue mani.
Era così freddo... e la sua pelle così secca. Sembrava una statua di sabbia che presto si sarebbe sgretolata tra le sue braccia, e allora lo strinse più a sé, tentando di tenere insieme quei granelli con tutto il suo corpo.

«Credevo...» biascico il castano, il corpo che tremava leggermente, la voce flebile, «Credevo che non ti avrei più rivisto».

«Non ti lascerò morire così facilmente, cosa credi?» disse Levi in risposta, inspirando tra i suoi capelli. L'odore di sporco e polvere lo aveva stordito di colpo, bloccandogli il respiro, ma al diavolo l'ossigeno se questo significava poter scaldare Eren, che con quella temperatura rasentava un pezzo di ghiaccio della sua terra natia.

Lo lasciò andare solo perché temeva che se avesse aspettato oltre l'altro gli sarebbe svenuto tra le braccia, in balia della fame che lo aveva privato di ogni briciolo di energia rimastogli.
Prese la pagnotta di pane che aveva portato e la fece passare attraverso le strisce delle sbarre, cogliendo di sorpresa Eren.

«Mangia» gli disse.

Il ragazzo afferrò il pane come se avesse tra le mani dell'oro. Addentò il grano con forza, sentendo il sapore della farina pervadere le papille gustative. Era duro e secco, ma gli era mancato tanto quanto le dita di Levi che gli carezzavano la cute mentre i suoi denti affondavano nel pane come la piccozza che era solito usare sulla rena rossa, e la gola sembrava come spalancarsi di fronte a quel sapore anonimo, ma quanto di meglio potesse chiedere. Il moro era impietosito di fronte alla voracità con la quale l'altro mangiava quel pezzetto irrisorio di cibo, e quanto avrebbe voluto circondarlo con il suo corpo, baciare il lato della sua gola e cullarlo in sogni dolci e profondi, e non guardarlo lì, da solo, chiuso in una cella scura, spoglia e lercia.
Mangiò perfino le briciole cadute per terra; non avrebbe buttato via nemmeno un frammento di quella felicità che Levi gli aveva portato, rischiando i colpi di frusta sulla sua pelle bianca dalla curiosa bellezza.

«Avvicinati» gli disse ancora, e lui fece come richiesto. Vide l'ombra di un bicchiere di legno e la mano di Levi che lo sorreggeva per avvicinarlo. Quando si posizionò esattamente sotto di esso l'altro lo inclinò, e allora sentì il freddo del piccolo getto d'acqua bagnargli le labbra come un acquazzone improvviso nel deserto. Le sue labbra crepate e spaccate in più punti trovarono sollievo nell'acqua saporita, ricca di minerali, che improvvisamente sentì come se lo stesse sopraffando fin dentro la gola.

Levi reclinò il contenitore, attendendo che Eren respirasse e ingoiasse. Glielo porse nuovamente, stavolta facendo delle brevi ma frequenti pause, non per burlarsi di lui, ma per agevolarlo, onde evitare che il castano vi si strozzasse: la gola con la quale cercava quel refrigerio era spaventosa, avrebbe finito per ucciderlo se non fosse intervenuto a quel modo. Le mani olivastre di lui raggiunsero il dorso delle proprie, bianche come un cadavere. Percepì il leggero tremore che muoveva quelle falangi, i graffi, i lividi, le croste che le cospargevano.

«È acqua del fiume, l'hanno portata stamani» la sua voce grave irruppe nel silenzio, mentre si apprestava a rimuovere un battuffolo da sopra i ciuffi marroni del ragazzo, «Niente male, non credi?»

Eren annuì in silenzio, impossibilitato a parlare, convinto che se avesse aperto bocca si sarebbe dimenticato di quel sapore celestiale: la consistenza del cibo, la freschezza dell'acqua, il gusto della vita. I suoi occhi verdi e stanchi raggiunsero gli altri in un battito di ciglia, e Levi percepì il cuore cadere in un mare mosso da potenti onde, sorvolate da tuoni e fulmini e un vento dirompente.

Si abbracciarono di nuovo, vinti dal bisogno urgente di sentire pelle su pelle, calore contro freddo, bianco contro marrone. Il naso gelido di Eren premeva contro la sua guancia, mentre le labbra fredde, secche e ruvide sfioravano inevitabilmente parte del mento. Quando le sue mani furono sulla sua schiena, in risposta, non poté descrivere ciò che lo travolse nel toccare i solchi profondi e molli lasciati dalla frusta che aveva scavato nella sua pelle senza pietà alcuna. E sembrava non esserci numero a tutte quelle strisce, a quelle righe che avevano ogni sorta di forma e dimensione, come se qualche idiota si fosse divertito a disegnare sulla sabbia, come quella che loro scavavano.

[...]

«Ehi!» quel grido fu l'ultima cosa che avrebbe voluto sentire. A malincuore si staccò da Eren, come se qualcuno avesse sradicato un fiore dal proprio cubetto di terra.
Corse via prima che la guardia lo potesse riconoscere, per scampare alle terribili punizioni che gli avrebbero dato per essersi infiltrato in un luogo come quello, destinato solo ai ribelli, ai puniti. Farlo, però, gli provocò ben più dolore di quello che aveva percepito quando aveva assistito alla scena brutale, osservando il sangue scendere lungo la schiena di Eren senza che potesse far nulla.

L'altro lo vide svanire nel nulla, così come era apparso. Era forse stato un sogno? La fame si stava prendendo gioco di lui con false apparenze? Non avrebbe saputo dirlo, ma di una cosa era convinto: L'acqua salata che era giunta sulle sue labbra e che aveva leccato via con la lingua, non avrebbe mai potuto essere stata frutto della sua immaginazione. Quello era il dolore, la sofferenza che prendeva forma di lacrime che non avevano alcuna utilità, se non quella di farlo morire di freddo quando il vento lo attraversava da cima a fondo, cibandosi delle sue forze.

Iʟ ᴘʀᴇᴢᴢᴏ ᴅᴇʟʟᴀ Lɪʙᴇʀᴛᴀ̀Donde viven las historias. Descúbrelo ahora