52. Ho aspettato abbastanza

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Il Great Hall of Music ci accolse con sfavillante marmo e un candelabro uscito direttamente da una fiaba ottocentesca. 

L'atrio, se così si poteva chiamare, brulicava di persone con in spalla i loro strumenti e i loro vestiti migliori addosso. 

Quel posto avrebbe dovuto essere un albergo, ma aveva più l'aria della casa vacanze dei Romanov. 

Ci avevano assegnato una camera con cinque letti, cinque comodini, cinque armadi, e due bagni. Avevamo speso giusto il tempo per lanciare i nostri zaini sul pavimento e tirarci a lucido per la prova, per poi scendere immediatamente di nuovo nell'atrio. 

Le prime band avrebbero iniziato a suonare alle venti, e sarebbero andati avanti fino a mezzanotte, per poi ricominciare la sera dopo. 

Non era ancora stata resa pubblica la scaletta. Nessuno sapeva se si sarebbe dovuto esibire tra tre ore, o tra ventiquattro. L'agitazione palpabile nell'aria era dovuto anche a questo. 

Da questo, e dalle tre grosse telecamere che inquadravano ogni piccolo gruppetto, ricordando a tutti che questa volta avremmo avuto un pubblico. Un vero pubblico, non solo quattro matusa di giudici della casa discografica. 

L'angolo in cui ci aveva spinto Rue era sospettosamente lontano dai cameramen che stavano sfilando da una band all'altra. La bassista si tolse il suo strumento dalle spalle e lo appoggiò sulla punta della scarpa. Aveva insistito per portarselo dietro anche se probabilmente non le sarebbe servito molto presto. 

Il brusio sommesso che rimbombava nel salone era l'unica cosa a spezzare il nostro silenzio.  

Eravamo in silenzio dalla sera prima, in verità. 

C'era una strana energia tra noi, e non era solo per la gara. Jeremy e Lucas facevano gran mostra di non voler guardare l'uno verso l'altro. E poi c'era Andy. Andy era silenzioso, ma quello non era troppo insolito. Era il fatto che fosse... fermo. 

Andy non era mai del tutto fermo. Aveva un modo di esistere in completo movimento, come un uccellino, o un criceto sotto l'effetto di caffeina. C'era il suo dondolare dai talloni alle punte, il mordicchiare costantemente qualunque cosa potesse infilarsi in bocca, e il modo in cui si impastava le guance come fossero pongo quand'era sovrappensiero. 

Ma ora era fermo. Teneva le mani nelle tasche della sua giacca nera. Aveva il farfallino stretto intorno alla gola. A me pareva troppo stretto, ma lui non se lo stava aggiustando.

Stava tenendo lo sguardo fisso nel vuoto. Non aveva nemmeno detto niente degli stupidi jeans strappati e della felpa senza maniche che mi ero messo addosso. Li aveva scelti lui, per la miseria. Poteva almeno dire qualcosa. 

Sbuffai, e tutti fecero finta di non sentirmi. 

Sbuffai più forte e mi infilai le mani in tasca per dimostrare a tutti loro la mia più totale indifferenza. 

La mia mano destra finì di nuovo contro l'incarto del regalo. 

Non solo non l'avevo buttato via all'autogrill, non l'avevo buttato via all'hotel, e l'avevo anche spostato da una felpa all'altra per assicurarmi di avercelo con me. Qualcosa mi diceva che il mio subconscio traditore non volesse che io me ne sbarazzassi. 

Ok, glielo volevo dare. Ma non volevo che mi ridesse in faccia. Forse potevo trovare un modo di farglielo avere senza che sapesse che era da parte mia. 

Avvertii Lucas irrigidirsi al mio fianco, e Rue emise come un ringhio sottovoce. 

Un piccolo manipolo di persone stava attraversando la Hall chiacchierando affabilmente alle piccole band che superavano. 

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