30. Il lavoro di un'ambasciatrice

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Svegliarsi dentro a un albero non era un'esperienza nuova per Myrhiam, che aveva vissuto per mesi nella tana di Rahae; eppure, farlo con un raggio di sole che le scaldava il viso e le illuminava le palpebre chiuse costituiva a tutti gli effetti una prima volta.
Così come una "prima volta" fu svegliarsi con l'impressione di avere la testa stretta in una morsa.

«Maledetto vino di more...»

Non si era mai, mai ubricata; qualche volta, in occasione delle feste importanti e delle danze notturne aveva esagerato con l'idromele o con il sidro, ma il massimo che aveva provato era stata un'irrefrenabile voglia di ridere, o la sensazione di volare più leggera del solito. Mentre in quel momento, a Shelrah, ospite e allieva della Fata ambasciatrice che avrebbe deciso del suo futuro, era intenta a smaltire una sbornia.

«Bravissima» bofonchiò, alzandosi a fatica dal letto in cui, con tutta probabilità, era stata pietosamente trasportata da Feram. «Un inizio col botto.»

Gli occhi non volevano saperne di aprirsi del tutto, e fu difficile capire da dove proveniva il raggio di sole; alla fine scorse una finestrella crociata in alto, un livello sopra di lei, risplendere e accecarla con una luce degna del mezzogiorno più caldo della prima estate di Gondre.
Si stava ancora domandando che ore fossero, quando avvertì la voce di Feram provenire dal piano inferiore.

«No, no, no. Rifallo, per favore. Così non si legge niente. Inclina lo stilo, altrimenti l'inchiostro non fluisce bene. Più piano. Piano!»

Il tono impaziente di Feram e le proteste impacciate di Nelgon costituirono l'impulso perfetto per scrollarsi di dosso l'intorpidimento del vino. La testa continuava a dolerle, e una sete pazzesca le infeltriva la lingua... ma niente l'avrebbe fermata  dallo scoprire che cosa stava succedendo di sotto. Si mise in volo silenziosamente e si affacciò come poteva.

La prima cosa che scorse fu Nelgon, armato di una penna e la mano destra imbrattata di inchiostro; dopodiché gettò uno sguardo allo scrittoio su cui il suo collega stava lavorando, e notò che vi erano posate due papiri, uno scritto fittamente e l'altro tutto macchie e segni di ripensamenti.
Se pure la Fatina non avesse udito il rimprovero di poco prima, sarebbe stato facile capire che qualcosa non andava: l'espressione contrariata di lui, i ricci che gli sollevavano la frangia corvina e la piega sulla guancia di Feram erano segni inequivocabili di un esame dagli esiti poco brillanti.

«Buongiorno» fece Feram, vedendola spuntare dal piano superiore. «Come stai?»

Nel dare una risposta, la voce di Myrhiam suonò roca.
«Buongiorno a entrambi. Chiedo scusa per ieri sera; mi sono accorta di aver bevuto troppo quando oramai era troppo tardi. Non succederà più.»

«No, scusa tu. Avrei dovuto capire che non sei abituata al vino di more; non è stato un gesto da insegnante provetto, quello di riempirti il bicchiere anche quando mi dicevi "basta".»

Lo sguardo di Feram sembrava cercare in quello di Myrhiam la prova che tra loro non c'era risentimento; la Fatina si affrettò a sorriderle, e la sua maestra ricambiò immediatamente.

«Se vuoi fare colazione, sali pure e serviti. Nella dispensa c'è ancora qualcosa di commestibile. Io ti raggiungo fra poco.»

Myrhiam risalì in alto, ma prima di recarsi nella cucina cercò un lavabo e uno specchio per darsi una sistemata; le occhiaie che vide riflesse non sarebbero state cancellate neanche da una vagonata di polvere di biancospino, però l'acqua fresca fece il suo dovere e le diede una bella svegliata. Salì quindi al penultimo piano, dove cercò nella credenza qualcosa per calmare la fame e, soprattutto, la sete; trovò una bottiglia piena di succo giallo dall'odore sconosciuto e delle gallette di farina d'avena stantie.

Le Sette Vie. Storia di una Fata della SperanzaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora