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Il cielo era striato da fasce di rosso scarlatto e arancione tenue che lo fasciavano, cullandolo dolcemente. I colori si muovevano sinuosi al vento, rendendolo quasi un essere vivente. Ricordava uno di quei bellissimi quadri rinascimentali che potevi osservare solo nei migliori musei d'arte. Uno quei dipinti che non riuscivi a dimenticare facilmente. Leggere nuvole coprivano il tutto, che illuminate dagli ultimi e stanchi raggi di sole, davano l'impressione che ci fosse un velo quasi trasparente e impalpabile a dividere l'immensità della volta celeste dai comuni mortali lì a terra.

Amelya era seduta sul prato, le gambe incrociate, le dita che affondavano nell'erba bagnata dalla pioggia di poche ore prima. I suoi occhi azzurri fissavano tutta quella maestosità mutare davanti a lei e ne rifletterono i magnifici colori, diventando prima leggermente aranciati e poi rossi come dei bellissimi rubini.

Si sentiva in pace. Non solo con sé stessa, ma con l'intero mondo. Non come una spettatrice, ma come se fosse una parte viva del cielo che stava osservando, del sole che spariva dietro le montagne, della terra che stava stringendo tra le sue mani e del vento che le accarezzava la pelle pallida e le scompigliava i capelli corvini.

Lentamente, il sole scomparve, portandosi con sé la sua personale tavolozza di colori.

Amelya alzò gli occhi e si morse un labbro, impaziente di vedere quell'ormai telo nero sopra di lei cospargersi di piccole stelle luminose.

Ma non accadde.

Neanche una piccola luce prese il posto del sole. Il cielo, adesso, era diventato un manto di oscurità.

La notte divenne velocemente fredda e pungente. Sembrò quasi che la temperatura avesse subito un calo di diversi gradi. Lentamente l'erba intorno a lei iniziò a congelare. Il terriccio divenne freddo e secco.

Le si formò la pelle d'oca sulle braccia, seguita da brividi insistenti che iniziarono a percorrerle il corpo. Istintivamente, staccò le mani dal terreno e si abbracciò per provare a conservare un po' di calore corporeo.

Non appena lo fece, le sue dita sfiorarono i fili d'erba congelati, che si ruppero al loro passaggio e un suono di voci quasi impercettibile si librò nell'aria gelida. Per un istante, Amelya poté giurare che quel rumore fosse provenuto dai fili d'erba rotti.

La ragazza osservò il manto verde sotto di lei, talmente congelato che la brina lo aveva reso quasi trasparente. Sembrava vetro.

Poggiò l'indice sulla punta di un filo d'erba e quello si sgretolò al tocco, tagliando il silenzio della notte con un urlo glaciale.

Amelya si alzò di scatto, spaventata e confusa e non appena lo fece, i suoi scarponcini disintegrarono l'erba cristallizzata sotto di lei. La notte si riempì di urla di dolore angoscianti, lacrime e lamenti senza fine.

Sembrava quasi che ogni filo d'erba sotto di lei racchiudesse in esso le sofferenze del mondo intero e rompendoli, lei li stesse liberando tutti.

Le urla di sofferenza e dolore le vorticavano intorno, le penetravano nel cervello, si annidavano nei luoghi più remoti della sua mente e si moltiplicavano come un virus.

Il loro dolore, divenne il suo dolore.

Amelya cadde in ginocchio, la testa tra le mani.

«Basta,» supplicò, «vi prego basta!»

Ma le urla non cessarono, anzi, divennero sempre più forti, fino a coprire il rumore dei suoi stessi pensieri.

Lentamente, in mezzo a tutto quello strazio, una frase iniziò a riecheggiare sospesa nell'aria.

«Mox cedere puella, anima tua mea est.»

Amelya ebbe all'istante la sensazione che qualcosa le avesse avvolto il cuore in un guanto ghiacciato e avesse iniziato a stritolarglielo. Iniziò a respirare affannosamente. L'ossigeno gelido le entrava nei polmoni bisognosi e affannati, le seccava la bocca e bruciava la trachea.

From Darkness To AshesWhere stories live. Discover now