𝟐𝟗- 𝐋𝐚 𝐜𝐢𝐭𝐭à 𝐢𝐧𝐜𝐚𝐧𝐭𝐚𝐭𝐚 𝐝𝐞𝐢 𝐤𝐚𝐦𝐢

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Maia guardava incantata l'ingresso del bosco: due colonne chilometriche reggevano delle assi di legno orizzontali; si ergevano al principio di un sentiero, percorso per tutta la sua lunghezza dalle ombre ballerine degli alberi.

Non riusciva a capacitarsi del fatto che fossero ancora a Tokyo; sembrava di trovarsi davanti a un paesaggio incantato da film della Ghibli: i cedri giapponesi erano così cospicui e imponenti da nascondere il tramonto, che riusciva a insediarsi soltanto occasionalmente attraverso le fronde, e coloravano il cielo con il verde delle loro foglie e con le sagome oscure dei loro rami.

La costruzione posta all'entrata del santuario era talmente alta da incutere soggezione e la ragazza restò a fissarla in silenzio per un po', timorosa di avanzare.

Dallas, invece, guardava il nastro legato alla sua caviglia; assecondava i movimenti del vento, che quando si scontrava contro la chioma degli alberi, diventava l'unico altro suono udibile all'infuori del costante cinguettio degli uccelli.

Mentre osservava l'ondulante pezzo di stoffa legato alla sua pelle diafana, si domandò per quale motivo fosse tanto importante per lei. Per la prima volta da quando si trovavano in Giappone, fu veramente curioso di conoscere la sua storia. Gli aveva già raccontato che era stato donato dalla nonna; eppure intuiva che ci dovesse essere dell'altro. Il problema era che non riusciva a capire perché ne fosse così sicuro.

Tengo si avvicinò a Maia, tenendo per mano suo figlio, e le spiegò che l'ingresso solenne veniva chiamato torii.

Alcuni istanti prima, Dallas lo aveva telefonato per un passaggio, scoprendo, in tal modo, che anche lui si stava dirigendo nello stesso luogo. Data la fortunata coincidenza, avevano deciso di andare insieme. In macchina, Tengo aveva raccontato ai due ragazzi che per lui era un abitudine recarvisi ogni giorno: era un credente. Ma oltre alle motivazioni religiose, l'autista trovava che fosse una scusa incantevole per staccare dal caos della città e per passare del tempo con il suo piccolo.

«È considerato il confine tra il mondo materiale e quello spirituale: ci si deve inchinare accanto a un lato prima di entrare», continuò a spiegare a Maia.

Quando lei provò a ripetere il vocabolo giapponese, la sua pronuncia suonò talmente buffa alle orecchie del bambino che scoppiò a ridere. Il padre lo redarguì in lingua; ma la severità del suo tono non ebbe bisogno di traduzioni.

Tant'è vero che Maia si affrettò a gesticolare di smettere nella sua direzione. Tuttavia, suo figlio era già inchinato nella sua direzione e si scusava col linguaggio del suo piccolo corpo.

Maia si abbassò sulle ginocchia per emulare la sua altezza; dopodiché, alzò lo sguardo verso Tengo. «Come si dice in giapponese "hai una risata troppo adorabile per scusartene"?»

L'autista tradusse la frase per lei, ma lo fece con una velocità impressionante: Maia strabuzzò gli occhi, poi cercò di portare alla memoria almeno una parte di ciò che aveva udito. Quando lo riferì al bambino, lo vide trattenersi dal ridere gonfiando le guance paffute; infine, si piegò sulle piccole ginocchia ed esplose nell'ennesima risata. La ragazza, divertita dalla sua reazione, si lasciò traportare dall'ilarità e lo imitò. La scena fu così tenera, che anche il padre non riuscì a sgridarlo.

Dallas li osservava con un sorriso sulle labbra: anche lui aveva trovato la loro interazione molto dolce.

Poco dopo, smisero di ridere e decisero di fare il loro ingresso: si avvicinarono al lato sinistro della costruzione enorme e si inchinarono prima di procedere. Maia si sentì frastornata dalla bellezza del panorama: sulle loro teste si estendeva una tettoia di smeraldo e il sole calante si espandeva su ogni angolo di quel paradiso terrestre.

Ciò che la morte non ti regala Where stories live. Discover now