𝟓𝟕- 𝐔𝐧 𝐩𝐚𝐢𝐨 𝐝'𝐚𝐥𝐢 𝐢𝐠𝐧𝐢𝐟𝐮𝐠𝐡𝐞

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La sua schiena era immensa; nel guardarla tanto intensamente, Maia ebbe timore di perdersi in quella visione e si sentì come una busta di plastica trasportata dal vento per le strade infinite di una metropoli.

Le teneva il polso con una presa ferma e la guidava con quel suo silenzio tanto ostinato e rabbioso; si rifiutava di parlarle.

Dopo aver aperto la porta, si erano ritrovati improvvisamente faccia a faccia: lui si era limitato a guardarla con una furia lampante negli occhi; lei, invece, era partita a manetta. Gli aveva gridato addosso tutti i suoi pensieri: gli disse che lo aveva trovato infantile e codardo, che ignorarla non avrebbe risolto i suoi problemi e che era stato un egoista a farle sprecare il poco tempo che le rimaneva per completare la lista.

Le urla le avevano procurato un bruciore intenso alla gola e quando si era intensificato, era stata costretta ad interrompere il suo discorso. Lui se ne era approfittato per afferrarla e trascinarla lontano dalla camera del maggiordomo; non lo avevano neanche salutato. Si erano lanciati fuori dalla stanza e avevano camminato per minuti interi senza rivolgersi la parola.

La ragazza non aveva preteso di sapere dove fossero diretti né fu capace di dedurlo dall'orizzonte, celato abilmente dal corpo imponente di Dallas che continuava a procedere imperterrito.

Fu soltanto il profumo frizzante della salsedine e il suono calmante delle onde a farle capire che fossero appena usciti dalla struttura. Finalmente il ragazzo si fermò e le lasciò il braccio.

Maia mise a fuoco il panorama dinanzi a sé: il perimetro della facciata principale dell'hotel era circondato da un pontile che affacciava direttamente sul mare.

Abbassò gli occhi sulle assi di legno e li fece risalire sulle lampade eleganti che si alternavano lungo il muretto.

Poi si concentrò sul Sidney Opera House: le vele della tettoia erano illuminate dalla 'golden hour' e le sembrarono le pinne di un branco di squali che cercavano di battersi per sorgere al di sopra della superficie, finendo per sopraelevarsi l'uno sull'altro.

La costruzione era completamente irradiata dal sole, così come i palazzi lungo la costa; i loro vetri riflettevano intensamente la luce aranciata e sembrarono fiamme vive e brulicanti che ballavano sopra lo specchio d'acqua ai loro piedi.

Il sospiro del ragazzo di fronte a lei si confuse con il suono del vento ma lo sentì lo stesso; e ne fu riportata alla realtà.

«Perché mi hai trascinato fin qui?», gli chiese di colpo.

Si era appoggiato al muretto e guardava davanti a sé. «Perché avevo bisogno di aria»

Poi si voltò verso di lei con uno sguardo enigmatico; una miriade di stelle azzurre e affilate gli ballarono nelle iridi. «E avevo bisogno di spazio. È per questo che non ci sono stato in questi giorni»

Aggrottò le sopracciglia e senza pensare, si indicò. «Spazio da me?»

Lui fu incapace di risponderle e tornò a darle le spalle. Maia annuì soprappensiero contro le onde di luce che continuavano ad impegnare l'acqua in un moto soporifero; per un po' stettero in silenzio.

La ragazza ragionò sulle sue parole e sui possibili significati della parola "spazio"; sapeva di non occuparne troppo a livello materiale: aveva lasciato la maggior parte dei suoi vestiti in valigia proprio per lasciarne di più a lui.

Si impegnava costantemente per far sì che anche la sua presenza non fosse di troppo: dopo un certo orario, non ascoltava musica né si permetteva di vagheggiare con il telefono, che teneva in modalità silenziosa la maggior parte del tempo.

Sapeva di non russare durante la notte; o almeno, sperava di non farlo. Ma se avesse potuto trattenere il respiro a lungo, pur di non infastidirlo, avrebbe rinunciato all'ossigeno del tutto.

Ciò che la morte non ti regala Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora