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Ninive

Il rumore della sveglia entrò diretto nei timpani facendomi sobbalzare dal letto: oggi era il grande giorno.
Sarebbe dovuto essere tutto perfetto, per una volta.

Una sola, pensai.

Dopo essermi lavata e vestita mi diressi in cucina, dove mio fratello era già pronto e stava bevendo il caffè. L'odore dei waffel stordirono i miei sensi, così ne afferrai uno e gli diedi un morso.

«Sapevo che li amavi ancora!» un sorriso comparve sulle sue labbra.
«Emozionata?» chiese infine, tornando serio.
Un nodo in gola si era formato ben stretto.
«Odio gli inizi» ammisi.

Tornai a guardare i suoi occhi che indugiavano su di me, come a studiare il mio atteggiamento.

«Andrà bene» concluse, come se potesse leggere le preoccupazioni che torturavano la mia mente.

«Deve andare bene, Matt. Lo devo alla mamma e a...» non conclusi la frase perché pronunciare il suo nome significava riaprire un dolore che squarciava in mille pezzi il mio cuore, lasciandomi completamente vuota.

«E Damon» disse lui al mio posto.

Io non ero diversa da Damon, anzi, ero la sua estensione oppure lui la mia.
Essere fratelli gemelli aveva creato tra noi un rapporto viscerale, profondo.
Io lo sentivo.
Lui mi sentiva.
Ci sentivamo. 

Eravamo capitati in brutti giri, in amori sbagliati e luoghi non adatti alla nostra età.
Io ne ero uscita, ma lui no.
Aveva continuato finché la giustizia bussò alla sua porta, ma sembrava che a Damon questo non importasse.

Io invece non avevo mollato, anche quando me lo portarono via. Purtroppo, però, senza di lui la vita non era la stessa.

Lo immaginai dietro le sbarre di una sporca e piccola cella, con solo i suoi demoni a fargli compagnia.

Lasciò che gli avvenimenti della vita lo travolsero, non prendere una scelta e già essa una scelta. Era come se qualcuno mi stesse stritolando il cuore, prima di buttarlo a terra sanguinante e calpestarlo di nuovo. 

«Ninive?» Matt fece passare una mano di fronte ai miei occhi, che probabilmente erano fissi a guardare un punto imprecisato fuori dal parabrezza.
La macchina era ferma vicino al marciapiede e una pioggerella leggera scendeva, creando un picchiettio impercettibile attorno a noi.

«Oh si, siamo arrivati, scusa io... pensavo!» risposi confusa e frettolosa. Senza dargli modo di replicare scesi dall'auto, e con uno scatto veloce, chiusi la portiera. Salutandolo con un cenno di mano. 

Matt non ci aveva mai capiti, lui era diverso. Riusciva ad amare la vita, a sentirla dentro se stesso e a goderne di ogni secondo. La accettava così com'era, non si poneva troppe domande e andava avanti, accontentandosi.

Noi invece no, avevamo bisogno di avere una ragione per vivere, per sentirci vivi. Avevamo bisogno di aggrapparci a quella vibrazione adrenalinica, che era come camminare sul filo del rasoio tra la vita e la morte. Ragione e irrazionalità, follia e normalità, amore e odio. Noi eravamo questo, o tutto o niente.

Sapevo che nessuno mai ci avrebbe compresi, e che avremmo sempre avuto una vita instabile, scostante e solitaria. Forse questa era l'unica cosa che avevo accettato.

Non volevo che qualcuno mi amasse.
Anche se sapevo di poter amare qualcuno profondamente.

La pioggia mi bagnava il viso, mentre le persone cercavano un riparo, affrettando il passo. Io invece camminavo piano, assaporando ogni goccia fredda scorrermi addosso.

Dopo poco ero arrivata all'ingresso dell'accademia Harrison.
Era un'edificio antico, aveva delle scalinate in cemento grigio e una piccola tettoia con la porta a vetrata.
Indubbiamente affascinante, soprattutto nel sentire della musica ovattata uscire da ogni spazio di quell'ambiente magico.

Con gli stessi occhi Where stories live. Discover now