ᴘʀᴏʟᴏɢᴏ

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NOTE DELL'AUTRICE

Se ti rivedi in Flame o in qualsiasi altro personaggio di questa storia, ti prego, ti scongiuro, CHIEDI AIUTO.
Non lasciatela mai vincere.
Questo è un racconto di speranza, di amicizia, di amore e di luce in fondo al tunnel e non promuove assolutamente tali gesti.
Neens

▪▪▪▪▪


"Ci sono momenti in cui vorrei solo perdermi in un abbraccio.
Momenti in cui vorrei dirti: toccami, sono qui.
Ma la mia bocca non sa parlare, la mia pelle non sa accettare.
E allora resto qui, a guardare svanire anche il mio fragile contatto con la realtà.
Ancora, e ancora e ancora."





«L'hai fatto di nuovo.» una voce in lontananza. Ovattata.
L'avevo fatto di nuovo.

Braccia che mi reggono. Che mi tirano su.
Non ho più contatto con il mondo esterno mentre il sangue mi ricopre le braccia e i miei occhi non riescono a stare aperti.

«Flame non azzardarti a morire fra le mie braccia hai capito?» sento le lacrime di mia sorella cadere sul mio volto.
È colpa mia. L'avevo fatto di nuovo consapevole che altri ne avrebbero sofferto.
Ho rotto la mia promessa.
Come sempre.

Mi lascio andare, è la cosa giusta da fare ormai.
Ho perso troppo sangue e non ho più le forze di respirare e di sentire il mondo accanirsi su di me.

È devastante.
Pesante.
Ma io sono leggera adesso.



✘✘ ✘

Il rumore costante del monitor mi risveglia con la sua opprimente melodia.
Sono in un luogo che non conosco e la mia mente è un groviglio di confusione e dolore.

Le braccia sono pesanti, avvolte in bende bianche come fasce di mummia.
Sento il pizzicore delle ferite fresche.
La pelle è tesa, come se fosse stata cucita insieme con fili invisibili.

Ogni movimento è un supplizio, e quando cerco di sollevare la mano, la flebo infilzata nel mio polso mi ricorda la mia vulnerabilità.
La gola mi brucia, e il sapore metallico del sangue si insinua tra le papille gustative.
Ho la sensazione di aver inghiottito una manciata di spine.

Ho bisogno di parlare, ma le parole si attorcigliano nella mia mente come fili spezzati.
La voce sarebbe solo un sussurro roco, eppure ho bisogno di sapere.
Dove sono?

Forse sono morta e questo è il paradiso.
Ma io non mi merito il paradiso. Sono fallata.
Chiunque mi abbia creato ha messo un marchio con scritto "da riconsegnare per difetto di fabbrica" ma nessuno è mai venuto a prendermi, quindi ho voluto pensarci io.

L'ambiente intorno a me è sterile e freddo.
Le pareti sono rivestite di piastrelle bianche, e il soffitto è punteggiato di luci accecanti.
Il rumore di passi e voci lontane si insinua attraverso la porta socchiusa.
Sono in un ospedale.
Ho la mia risposta.

Non riesco a ricordare come ci sono arrivata, ma so benissimo perché.
Seduta su una sedia accanto al mio letto c'è Liv, mia sorella.
I suoi occhi sono gonfi e rossi, e le labbra serrate. Ha gli stessi lineamenti di nostra madre, e in quel momento sembra portare sulle spalle il peso del mondo intero.

Mi ha trovata prossima alla morte, ha visto il mio corpo martoriato, e ha fatto in modo che mi portassero qui.
Come fa sempre, da ormai un anno.

Lei è la mia ancora umana, la mia guida attraverso questa nebbia di confusione.
Mi guarda con un misto di preoccupazione e rabbia, e io vorrei dirle quanto mi dispiaccia.
Ma le parole si sono nascoste da qualche parte nel mio cervello, e la mia bocca è troppo secca per pronunciarle.

La mia mente è un abisso oscuro, un vortice che mi inghiotte senza pietà.
Un mostro che si nutre di ogni briciola di speranza, lasciandomi con le ossa spolpate e il cuore in frantumi.

So che farla finita farà male a Liv ma la mia stessa esistenza è un peso insostenibile, una catena che mi trascina verso il fondo.

Liv mi guarda con occhi imploranti, e io vorrei dirle che le voglio bene, che la mia decisione non è un atto di egoismo, ma un grido di disperazione.

«Flame» dice Liv, la voce rotta dall'emozione «Avevi promesso che non sarebbe più successo»

Le lacrime scivolano sulle sue guance, e io vorrei asciugarle, dirle che va tutto bene.
Ma non posso e soprattutto non posso più mentire.
«Mi dispiace» sussurro «Mi dispiace per tutto»

«Ho parlato con i medici, appena ti dimettono ho fatto richiesta per un posto al St. Margareth.» risponde secca lei.

Non lo dice ma è chiaro cosa pensi di me.
Sono malata.
Malata nella testa e le faccio schifo.
Le ho rovinato la vita, così come l'ho rovinata a mia madre prima di lei e ho fatto scappare mio padre.

«Ho paura per te Flame» ammette poi senza avere neanche il coraggio di guardarmi.
Lei ha paura, ma io no.
Io voglio solo andarmene.
Voglio essere leggera e non avere più tutti questi pensieri.
Voglio che finisca, che i miei occhi non si aprano più.
A me è la vita che fa paura, non gli altri, non me stessa.

«Si chiama pietà, non paura» rispondo sentendo il sapore ferroso del sangue dentro la mia bocca mentre inizio a rendermi davvero conto di dove sono.
Non c'è nessuno oltre noi due nella stanza, non ho compagni, non ho altre visite.
Sono un caso pericoloso, ma a quanto pare non per gli altri ma per me stessa.

Non ho mai capito perché la gente sia così egoista da volere a tutti i costi salvare anche chi non vuole essere salvato.
Come se non potessimo decidere da noi cosa fare della nostra vita.
Di questa merda che ci fotte il cervello e ci distrugge dall'interno.

«Devi amarti di più sorellina» continua lei.
Muovo la testa per guardare il muro bianco della stanza di ospedale dove sono stata portata.
Non c'è modo di amarmi di più quando non ricordo neanche se ci sia stata una volta in cui l'abbia davvero fatto.
Forse da piccola, prima di capire come funzionasse la mia esistenza.
Forse mai.

«Ho bisogno di dormire, puoi andare via?» chiedo con la voce gracchiante di chi non ha la forza di parlare.
La sento sospirare mentre si lega i capelli scuri in una crocchia e si alza dalla sedia accettando la mia richiesta.

«Non lasciarla vincere Flame» dice prima di attraversare la porta.
Annuisco mentendo.

Aveva già vinto, da anni, ma nessuno sembrava essersene reso davvero conto, tranne me.

FRAGMENTS - F.E.A.R.Where stories live. Discover now