Capitolo 5 - Maison

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La vittima era sdraiata a terra, supina, immersa in un nauseabondo lago di sangue che s'era esteso a buona parte della superficie piastrellata del pavimento come un tappeto di velluto rosso. Abbassò lo sguardo e prese visione di quello spettacolo raccapricciante: il collo era completamente dilaniato, la carne sofferente s'era arresa a quello che sembrava il morso di una fiera affamata; la giugulare completamente recisa aveva spruzzato quel liquido cremisi ovunque, dipingendo macabri affreschi sulla specchiera del bagno, le cui gocce di colore in eccesso erano andate gradualmente raccogliendosi nei lavandini, poco più in basso, tracciando solchi – che parevano lacrime – nel bianco asettico della porcellana. Un odore acre e pungente impregnava l'aria al punto che poteva perfino assaporarne il disgustoso sapore metallico sul palato.
Sam inorridì. Avrebbe voluto vedere uno schema, un ché di poetico e tragicamente finalistico in quello che sembrava il set perfetto di un lungometraggio a tema horror; ma tutto, in quella stanza, urlava violenza e pura carneficina. Fin dal primo momento in cui aveva messo piede sulla scena del delitto, aveva avuto l'impressione di assistere in prima persona al macello di quella povera donna che – minuta, inerme – tentava in ogni modo di divincolarsi dal suo aggressore, senza riuscirci.
Non c'era un disegno, non c'era premeditazione.
La proprietaria di quel locale notturno era stata portata in quel bagno senza sforzo e, una volta lì, dopo una breve lotta di cui la sua pelle ormai bianca e squamosa portava i segni, era stata fatta a pezzi: letteralmente divorata da qualcosa, da qualcuno. E lui conosceva perfettamente il nome di quella bestia.

Lanciò un'ultima occhiata alla vittima, al suo corpo sottile brutalmente falciato, ai suoi capelli rosa elettrico sparsi attorno a ciò che restava di lei. Poi si voltò e abbandonò la stanza, visibilmente turbato. Le impronte insanguinate che l'omicida aveva lasciato lo guidarono alla fine del corridoio, dove il suo supervisore lo stava attendendo.
Virgil era un uomo non solo alto, ma imponente: pelle scura, spalle larghe, fisico massiccio e robusto, sebbene avesse superato la cinquantina da un pezzo la sua schiena non s'era minimamente curvata sotto il peso e la fatica degli anni di servizio. Da quando Sam l'aveva conosciuto, non aveva mai smesso di sovrastarlo, guardandolo dall'alto con quegli occhi piccoli e fini e quell'enorme mascella perennemente contratta. Non ricordava di averlo mai visto sorridere, dal momento in cui aveva messo piede per la prima volta al distretto dell'FBI, tantomeno aveva udito da lui parole che esulassero in qualche modo dal loro lavoro. Se non fosse stato per la fede dorata che portava al dito, chiunque avrebbe detto, al suo posto, che Virgil non poteva che essere il prototipo dell'uomo sposato col suo mestiere, e totalmente devoto ad esso.
«Allora?» esordì, con la sua voce grave, profonda. Ma Sam non osò sollevare lo sguardo su quello del suo superiore, né si fermò per rispondere alla sua domanda: tirò dritto verso l'uscita per prendere una boccata d'aria; dentro quel locale buio e pervaso da un'aria a dir poco malsana si sentiva soffocare.
Il cartello luminoso indicante l'uscita di emergenza fu una vera benedizione. Un ronzio infernale gli torturava la mente: mano a mano che gli occhi si riabituavano alla luce, il profiler si massaggiava le tempie, pregustando l'amaro assaggio di quella che si prospettava come una tremenda emicrania.

Prese un profondo respiro, poi un altro e un altro ancora. I polmoni gli bruciavano come se fosse rimasto in apnea fino a quel momento, il cuore gli pulsava nel petto ad un ritmo irregolare e frenetico. A quel suono martellante si sovrappose, subito dopo, quello pesante e sordo dei passi di Virgil, che si apprestava a raggiungerlo. Non si voltò a guardarlo, ma inchiodò lo sguardo a terra, in un punto qualsiasi del marciapiede illuminato dal sole delle dieci di mattina. Aveva bisogno di azzerare la mente per un attimo e sapeva perfettamente che lui non glielo avrebbe concesso fintanto che non gli avesse detto quanto aveva dedotto.

«Samuel!» il suo richiamo somigliò più all'abbaio di un cane da guardia che alla voce di un essere umano «Si può sapere che diavolo ti prende?». Già, che cosa? Sam strinse le labbra tra i denti fino a farle sanguinare. Non avrebbe mai potuto spiegargli cosa stava accadendo nella sua testa, in quel momento, e non sapeva nemmeno se esistevano le parole adatte per farlo.
D'altra parte, come avrebbe potuto raccontargli della sua famiglia massacrata, di sua sorella orribilmente mutilata e di come lì, nel morso che quel mostro aveva sferrato al collo della donna che aveva analizzato poco prima nel locale, avesse visto l'immagine speculare della ferita con la quale un essere di quella stessa specie infernale aveva sgozzato suo padre davanti ai suoi occhi, affogandolo nel suo stesso sangue? Se avesse chiuso gli occhi, avrebbe sentito il suo rantolo agonizzante che ancora lo tormentava nel sonno.
«Sam! Mi stai ascoltando?» sì, certo che lo stava ascoltando. Lui percepiva – e assimilava – tutto ciò che gli avveniva intorno: non era un'abilità, ma una maledizione. Annuì brevemente, con un movimento frenetico della testa; i riccioli bruni gli solleticarono la fronte, mentre inforcava gli occhiali sul naso per ricreare quella barriera invisibile volta a separare lui dal resto del mondo.
Distacco. Si ordinò, comunque rassegnato all'idea di non potersi obbedire completamente.

Hypnophobia (#wattys2017)Where stories live. Discover now