Capitolo 31 - Demolition Lovers

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Le veniva da vomitare.
Non era stato il caldo abbraccio del primo sole al mattino a svegliarla; né il trillo acuto e penetrante della voce di Catherine, che spesso nel tentativo di trascinarla fuori dalla tiepida coltre delle coperte strillava al punto da far vibrare i vetri delle finestre. No, non c'era nessuno nella sua stanza: le persiane erano serrate e non un singolo, misero spiraglio di luce osava addentrarsi in quelle tenebre che la avvolgevano nel loro confortevole lenzuolo di seta.
A strapparla al sonno, in quel particolare frangente, fu l'irrefrenabile impulso di rigettare. Ancora intorpidita, Alex sollevò il busto di scatto, convinta che se non si fosse data una mossa per correre al bagno avrebbe combinato un bel macello che sarebbe anche stata costretta a ripulire il prima possibile, per non incorrere in una delle proverbiali e interminabili ramanzine di Cat; ma non appena raddrizzò la schiena il senso di nausea sparì quasi completamente: a sostituirlo intervenne, con pregevole prontezza, un dolore alla testa di proporzioni bibliche, come raramente le era capitato di provare in vita sua.

Il bruciore si originò alla base del setto nasale, con l'intensità della puntura di un lunghissimo ago che le trafiggeva lentamente la carne; si propagò gradualmente, scivolò lungo il profilo tondeggiante della fronte, seguì la forma del cranio, s'incastrò nelle lievissime rientranze della regione temporale e qui stabilì la sua dimora abusiva, tramutandosi ben presto in una fitta sorda e pulsante.
Con un gemito sommesso e ruvido, che le raschiò il fondo secco della gola, la sventurata si portò le mani al volto e si stropicciò gli occhi con indolenza, per poi raggiungere le tempie coi polpastrelli e massaggiarle delicatamente nel tentativo di trarre un qualunque sollievo da quel contatto.

«Oh Dio...» mormorò, con la bocca completamente impastata di una saliva secca, appiccicosa come un sottile strato di colla che le impiastricciava la lingua. Aveva un sapore orrendo, di quelli che ti riscopri sotto ai denti dopo una notte brava ad alzare il gomito, una serata passata a lasciar girare un po' troppo la testa.
Ma così era decisamente troppo.
Si passò le dita sottili tra i capelli neri come il buio che la inghiottiva. Non vedeva niente, non riusciva ad orientarsi e non sapeva assolutamente definire in quale ora del giorno si fosse magicamente risvegliata. No, di più: non aveva la minima idea di come fosse finita lì, da sola, in un letto e con una batteria di tamburini nel pieno della loro parata che le marciavano da un emisfero all'altro del cervello, senza sosta.
«Cazzo...!» mugolò, intontita.
I suoi ultimi ricordi erano imprecisi e frammentari, invece di restituirle nitide fotografie della realtà le rendevano, a tratti, scene che sembravano direttamente strappate a quadri di Picasso; il diner, le chiavi infilate nella serratura, la tonalità argentata del bancone: i colori sfumavano gli uni negli altri, le voci e i volti diventavano un mescolio di forme dai contorni confusi, che si intrecciavano tra loro creando bizzarre figure geometriche prive di significato.
Cosa diamine aveva bevuto per stare così male?

Un altro conato la sorprese nel mezzo dei suoi pensieri, ma fortunatamente si rassegnò a scomparire nel nulla come il primo senza costringerla ad imbrattare quello che aveva tutta l'aria di essere il suo letto.
Ma non tirò alcun sospiro di sollievo: non era proprio sicura che fosse il suo letto. Non ricordava di essersi mai coricata da qualche parte, né di essere rientrata in casa. Soprattutto, non ricordava dove tenesse le aspirine e, in quel momento, avrebbe letteralmente assassinato qualcuno pur di ottenerne una.
«Catherine...» chiamò a bassa voce, convinta che se non l'avesse alzata oltre una certa soglia, a un certo punto i percussionisti che si davano tanto da fare nello sconquassarle la mente avrebbero capito che non c'era alcun pubblico ad ascoltarli e, presumibilmente, si sarebbero anche dati una bella calmata.
Naturalmente, niente di questo accadde davvero, il mal di testa rimase e le aspettative di Alex Black sfiorirono come la speranza di vedere la coinquilina spalancare la porta per accorrere in suo aiuto. Forse era davvero notte: forse la biondina era immersa nei suoi sogni (che dovevano necessariamente essere traboccanti di principi azzurri e unicorni rosa; ma forse erano i residui della sbronza a dar voce ai suoi pensieri).
«Catherine... Cat!» imprecò tra i denti quando l'ultimo squillo – involontariamente troppo acuto – della sua voce le rimbombò tra le orecchie, rimbalzando dall'una all'altra come la pallina di un maledettissimo flipper. Se le tappò entrambe con le mani, lasciandosi nuovamente scivolare sotto le coperte e notando che... erano umidicce.

Hypnophobia (#wattys2017)Where stories live. Discover now