29. Un segreto per un segreto

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ELEANOR

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ELEANOR

La brezza marina mi carezzava la pelle, l'odore salmastro mi avvolgeva i sensi di una pace assoluta. L'oceano si estendeva davanti a me nella sua imponente magnificenza, rischiarato dai raggi del sole che splendeva alto, e delle piccole onde lambivano la riva sulla quale mi trovavo. I miei piedi nudi affondavano nella sabbia umida, i capelli mi svolazzavano attorno seguendo il ritmo di quelle lievi folate di vento che di tanto in tanto provenivano dalla mia destra.

«Mamma, guarda.»

La tenue vocina mi convinse a voltarmi a sinistra e lì, in piedi, un bambino con una folta chioma scura e con addosso un costumino blu, indicava qualcosa davanti a sé.

«Mamma, guarda lì», ripeté, e stavolta si girò a guardami. Non riuscii a vederlo in faccia, era come se un velo trasparente gli celasse il viso, impedendomi di riconoscerne i lineamenti.

«Mamma», disse ancora.

Una parola, due sillabe, cinque lettere...

«Mamma», ripetei a bassa voce, assaporando il modo in cui quel suono si muoveva sulla mia lingua.
Era strano. Non mi apparteneva, però lo sentivo giusto in egual misura.

«Guarda laggiù», continuò il bambino.

E allora seguii la traiettoria del suo piccolo e paffuto indice che puntava verso l'orizzonte.

Il sole era calato e ormai cominciava a nascondersi dietro l'estensione dell'oceano. Ma non era più del suo colore naturale. Una sfumatura scarlatta ne macchiava il giallo e, più il tempo passava, più quella voragine rossa si ingrandiva.

E finì per inghiottire il sole.

Aprii gli occhi di scatto, il fiato frammentato e la fronte imperlata di sudore, le pupille dritte verso il soffitto immacolato sulla mia testa.

Era buio, e una luce artificiale proveniente da fuori riverberava leggera dentro, illuminando alcuni punti oscuri della stanza.

Sospirai pesantemente e cercai di regolare il battito erratico del mio cuore. Era stato solo un sogno.

Tutto attorno a me viaggiava nella sua placida realtà.
Mi puntellai sui gomiti e la coperta pesante mi scivolò fino ai fianchi. Mi ci volle un po' per abituare la vista e, quando riuscii a mettere fuoco l'ambiente circostante, mi sentii... fuori posto.

Non era la mia camera. Non c'era niente di rosa.
Ma io conoscevo quel luogo.

Mi sollevai a sedere senza smettere di occhieggiare la stanza in cui mi trovavo. Le pareti erano bianche, il mobilio virava dal su varie sfumature di grigio; la poltroncina vicino all'armadio, invece, era nera. Su di essa, vi erano abbandonati alcuni indumenti maschili.
Tutti i miei sensi scattarono sull'attenti quando percepii una strana sensazione al ventre, come un dardo acuminato che mi trapassava da parte a parte. Mi si ruppe il respiro.

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