sette

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Goner, Twenty One Pilots.

Oggi ho detto a mia madre che non avrebbe dovuto aspettarmi perché sono già a casa, ho lezione più tardi.

Pranziamo insieme, e ogni volta mi rendo conto che non succede spesso. Quando posso, anche quando non posso ma quando ne ho bisogno resto fuori, anche da sola, anche tra le scale dell'università, pur non di non tornare qui. Solo che me lo chiede da tanto, e una possibilità la meritano tutti. Ne ho date troppe a tanti che non ne meritavano, posso fare uno sforzo e stare con mia madre. Siamo solo io e lei, mio fratello tornerà quando io sarò già nell'ennesimo treno.

«Com'è andato quell'esame?» mi domanda mentre rigiro con la forchetta la pasta nel mio piatto.

«Tutto bene, l'ho passato» le rispondo e so che non c'è bisogno che le dica con quanto. Perché se fosse stato diverso dalle altre volte probabilmente l'avrei detto io stessa.

Aspetto che mi dica qualcosa che conosco e che il più delle volte non voglio sentire perché forse è anche vero, però questa volta non lo fa.

Prima io e mia madre parlavamo tanto. C'era qualcosa che ci legava che si è spezzato negli anni, qualcosa che ci è sfuggito sotto ai nostri occhi e dalle nostre mani prima che potessimo rendercene conto. Prima mia madre mi conosceva, forse meglio di chiunque, ma adesso non ne sono più sicura. Sono cambiata e sono cambiata tanto; i miei sedici anni hanno scandito quel limite. Adesso mia madre di me sa che deve prendere le distanze perché non mi piace essere toccata, sa che alcune cose non deve dirle anche se poi le dice lo stesso. Sa che non deve farmi domande a cui non risponderei, sa che se voglio, le cose gliele dico io. Quello che non sa, quello di cui non riesce più a rendersi conto, è come sto davvero.

«Devi lavorare oggi?» mi domanda, cercando di colmare un silenzio che ci riempie ormai da troppo. Ma io la lascio fare, perché in questa casa tutti hanno già troppe colpe.

«Sì, ho il turno fino a tardi. Non mi aspettare» le dico perché so che il più delle volte lo fa, resta sveglia per sentirmi entrare da quella porta e chiedermi se sia davvero io. So che probabilmente lo farà anche stasera, ma sono troppo stanca per oppormi.

Il locale non mi dà tanto, ma è abbastanza da coprire le spese dell'università e delle terapie di mio fratello, quando mio padre arriva a quel giorno in cui dice «non ho i soldi per pagarlo». In realtà i soldi non li abbiamo quasi mai, non sono mai abbastanza e nessuno sa il perché.

Oggi è un martedì di dicembre che mi sferza il viso quando metto piede fuori dal palazzo, sempre chiusa nel mio parka come ogni giorno. La sciarpa che ho avvolta intorno al collo mi riscalda, e sento l'elastico tra i capelli cedere ad ogni passo che faccio perché vado sempre di fretta in posti che non conosco neanche.
È lo stesso martedì di dicembre quando incontro Nina dopo due mesi che non la vedevo. Riesco a salire sulla metro quando le porte si stanno per chiudere, lo zaino pesa sulla mie spalle e i capelli mi fuoriescono dall'elastico ancora una volta.

Basta poco quando alzo lo sguardo per vederla. È davanti a me, si accorge che sono io e sussulta debolmente, ma io me ne accorgo. Un debole sorriso è dipinto sulle sue labbra e i capelli neri le ricadono perfettamente ai lati del volto e sulle spalle. Sembra diversa eppure è la stessa. Mi chiedo lei in che modo mi veda, se riesca ancora a capire che mi sto limitando a sopravvivere.

«Ciao» dice per prima, tenendosi con una mano per non cadere. Lo dice come se fossi un'estranea, come se non sapessi niente di lei.

«Ciao» replico, poi ci guardiamo senza dire niente. Non è da sola e le due ragazze che sono con lei ridono tra loro, ma non riesco a capire per quale motivo anche se non mi interessa.

La guardo ancora per capire se qualcosa in lei è cambiato, per capire se nonostante tutto una delle due sarebbe disposta a tornare indietro per l'altra, a fare quel primo passo che però nessuna sembra voler compiere. La guardo per capire se sta bene, se è felice, se davvero c'è qualcosa di salvabile.

Poi però la metro si ferma e lei è già vicina alle porte quando non si volta neanche per rivolgere a me le sue parole. «Vado di fretta, ci vediamo.»

Io annuisco anche se non può vedermi, esco da quelle porte lentamente, non corro come tutte le altre volte, non ne ho la forza. Oggi vado piano, oggi ho bisogno di tempo e forse voglio tornare in quella casa da mia madre. Oggi ho capito che forse anche noi siamo insalvabili.

La lezione è pesante e io non la seguo come vorrei e come dovrei. Scrivo tre parole ma ne capisco soltanto una, le dita le trascrivono automaticamente quando lasciano la bocca del professore. Non mi sono seduta davanti, oggi sto un po' più indietro, tra le ultime file quasi vuote. Non voglio incrociare nessuno, non voglio dovermi fermare neanche per dire che sono in ritardo per il lavoro.

L'incontro con Nina mi ha destabilizzata. Non vederla più ogni singolo giorno mi ha aiutata a superare la nostra rottura e quello che ne è stato del nostro legame, ma più volte ho immaginato a come sarebbe stato se ci fossimo riviste. Forse non in quella situazione, forse in un locale, forse non per una sola fermata della metro. Eppure, durante quell'unica fermata io sono riuscita a rendermi conto che certe cose si rompono e basta. Anche quello che credi sia indistruttibile, prima o poi crolla. Sta a chi l'ha fatto crollare decidere se ne vale la pena ricostruirlo, o accontentarsi delle macerie e tentare di ricostruirsi.

Prima che la lezione finisca davvero e il professore esca dall'aula io sono già fuori, con alcuni libri tra le mani e lo zaino dietro le spalle. Scendo le scale velocemente, senza mai alzare lo sguardo e senza perdermi in qualcosa che posso evitare. Quando esco dalle porte principali è quasi buio, e con il cappuccio sulla testa torno verso la metro, ma continuo a non correre. Ho così tante domande e così tanti pensieri che mi annebbiano la mente che vorrei soltanto poter dimenticare. Vorrei che non facesse male e vorrei riuscire a fingere di stare bene. Vorrei riuscire ad andare avanti senza più l'impulso di guardarmi indietro e vorrei riuscire a non nascondermi dietro i ricordi.

La metro è più vuota delle altre volte, sul mio vagone ci sono soltanto pochi ragazzi e qualcuno che torna a casa dopo una giornata di lavoro finita. Poi c'è qualcuno che ci è capitato per caso, qualcuno che è qui per scappare o per arrivare tra le braccia di qualcun altro quando questo treno si fermerà. Io esco soltanto, vado verso l'uscita e svolto l'angolo, cammino ancora prima di raggiungere il locale con una sigaretta accesa tra le labbra.

Matt stasera non c'è, al suo posto c'è George, un ragazzo che si è trovato questo lavoro soltanto per ribellarsi ai genitori. Viene poche volte, solo se ce n'è bisogno. È sempre lo stesso martedì e io vorrei che questo posto si riempisse di più, vorrei non dover guardare e basta perché c'è poco da fare.

E nell'istante in cui mi domando se tutto possa andare anche peggio di così, un taccuino che conosco scivola sul bancone e sotto i miei occhi.

A/N

Sono consapevole del fatto che i capitoli non siano molto lunghi e che magari alcune parti (ok forse molte) annoino, ma siamo ancora all'inizio e chi mi conosce sa che mi piace fare le cose lentamente, poi a questa storia tengo davvero tanto e vorrei essere almeno un minimo sicura e soddisfatta prima di pubblicare.

In ogni caso, mi farebbe davvero tantissimo piacere sapere cosa ne pensate, qualsiasi cosa sia!

A presto 🌻

𝐔𝐓𝐎𝐏𝐈𝐀 [𝐇𝐚𝐫𝐫𝐲 𝐒𝐭𝐲𝐥𝐞𝐬]Where stories live. Discover now