V. What about love?

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Quando Blake mi aveva chiamato alle dieci di mattina dicendo che quel pomeriggio ci saremmo incontrati da lei per iniziare il progetto per il signor Franco non avrei mai immaginato che mi avrebbe portato nella sua vera casa.
Ora sono seduto sul letto della sua stanza, con un inquietante gatto nero al quale manca un occhio, mentre aspetto che torni dalla cucina; ma andiamo con ordine: come sono passato dallo stare sdraiato sul divano da solo a cercare di evitare gli occhi (anzi, l'occhio) di un dannato gatto?

Proprio nel momento in cui era partita la quarta puntata del trono di spade, il mio telefono squilla.
Mi lamento mentalmente e rivolgo uno sguardo sconsolato verso la TV la quale mostra l'inizio della sigla mentre afferro il cellulare e dico «pronto» svogliatamente; perfino un sordo sarebbe stato capace di cogliere il cambiamento del mio tono dal «pronto» al «ciao Blake, tutto bene?»
Mi aveva detto di raggiungerla a casa sua, e dopo aver preso il mio quaderno, il telefono, il caricabatterie e averli gettati malamente nel mio eastpack nero mi ero avventurato nel vialetto davanti casa il quale era ancora ricoperto da un sottile strato di neve. Giusto il tempo di sentire dall'inizio alla fine una canzone a caso sull'ipod ed ero davanti casa sua, pronto a mettere piede oltre il suo cancello, fino a quando lei non esce coperta da una sciarpa bordeaux che risalta ancora di più sui suoi capelli corvini.
«Andiamo a casa mia, non questa. Ti spiego in auto» e con una spaventosa precisione un auto nera giunge accanto al marciapiede, e lei mi incoraggia ad entrare.
Non appena chiudo la portiera il caldo dovuto al condizionatore mi assale costringendomi a togliere il capello mentre lei si aggiusta i capelli e la sciarpa e mi spiega che stiamo andando a casa dei suoi genitori perché quella è solo una casa che usa durante la settimana, in quanto è più vicina alla scuola rispetto alla sua villa.
Ed è in quell'istante che ricordo che Blake è la figlia del signor Chichester, pro pro (non so con esattezza quanti pro ci vogliano in realtà) nipote del (ex ormai- credo) primo barone di Templemore, una frazione dell'Irlanda nella contea di North Tipperary. Tutto questo risale al lontano 1826, ma ovviamente il titolo di barone è passato da figlio in figlio fino ad oggi. La generazione di Blake fa parte della seconda dei Chichester a risiedere qui in America, dopo che suo nonno al termine della Grande Guerra, per non perdere tutti i suoi possedimenti nelle verdi terre irlandesi, aveva deciso di trasferirsi.
Non so con quale capacità sia riuscita a spiegarmi tutto questo in soli venti minuti di viaggio in auto durante i quali mi sono distratto spesso- tanto per cambiare - ma la mia attenzione cala completamente quando entriamo all'interno della sua casa. O della sua villa. O reggia? Tenuta?
Non so trovare un termine adatto; so solo che mi sono pentito di essermi vestito a mo di barbone e di non essermi nemmeno aggiustato i capelli più di tanto prima di scendere; probabilmente se i suoi mi vedessero ora mi manderebbero a spalare la neve accumulata sul viale della dependance che c'è all'entrata (si, anche la dependance ha un viale tutto per se, tanto curato quanto quello della casa vera e propria).

La porta viene aperta da un cameriere e lei ringrazia sbuffando, insistendo di non volere nessuna di queste smancerie e sotto lo sguardo austero di quest'ultimo mi trascina su per le ampie scale che sono alla destra dell'ingresso così velocemente che non riesco ad osservare il resto della casa, e mi spinge in camera sua.

Ed ecco perché ora sono seduto sul suo letto accanto a questo maledetto gatto del quale non so nemmeno il nome.
«Non volevo metterci così tanto» dice entrando con un vassoio tra le mani, che la costringe ad aprire un modo indelicato la porta con un calcio che fa sobbalzare il povero gatto, e io mi spavento assieme a lui.
«Ti spaventa Plutone per caso?» prende il gattino tra le mani e lo accarezza lentamente, sedendosi affianco a me.
«Onestamente, è molto inquietante. È difficile distrarsi dall'occhio che gli manca. Come mai si chiama Plutone?»
«L'occhio gliel'ho cavato io»
Cosa?!
Sbianco in una frazione di secondo; che ha appena detto?
Lei intanto ride divertita.
«Avresti dovuto vederti! Stavo scherzando» alza gli occhi al cielo «L'ho trovato così, l'avevano abbandonato. Si chiama Plutone per Edgar Allan Poe e la sua storia intitolata "il gatto nero", per questo ho scherzato sul fatto che io gli avessi cavato un occhio»
«Non conosco Poe, l'ho solo sentito nominare»
Quella a sbiancare ora è lei. E infatti noto in quell'istante che la grande libreria che ha in camera, sulla parete sinistra, ospita per un intero ripiano solo opere del sopracitato Poe, sopra al quale si trovano i libri di Hoovecraft e Hugo.
Blake si rende conto del modo in cui sto perlustrando la sua stanza e mi dice che sono i suoi scrittori preferiti, soprattutto Poe, e che si aspettava che non lo conoscessi perché «sei decisamente troppo allegro e solare per conoscere Poe»
Non so se prendere come un'offesa o meno la sua ultima affermazione e preferisco sorridere cordialmente e basta sperando che lei faccia altrettanto ma non sorride. È una cosa che Blake fa raramente, ride spesso ma sorride poco. Prendo i biscotti che ha portato assieme a delle tazze di tè sul vassoio e iniziamo a parlare del nostro testo.
«E quindi di che parliamo? Dobbiamo trovare un argomento che vada bene ad entrambi»
«Si, ma non voglio un tema banale»
«Tipo?»
«Tipo l'amore» dice a bocca piena.
«Credi sia banale?»
«A meno che non ci inventiamo qualcosa di strabiliante, si, è banale. Secondo te no?»
«Non saprei, non ho molta esperienza» ammetto facendo passare la mia mano sinistra tra i capelli arruffati. Plutone si strofina contro il mio pantalone nero, e fa quasi tenerezza. Quasi.
«Non è nulla di speciale Ashton.
L'amore, nella maggior parte dei casi, tradisce chi lo prova.
Non è complicato. Non perdere tempo aspettando e facendoti illusioni. Non affannarti a rincorrere  qualcuno che non ti vuole. Nessuno  è così speciale, e sicuramente non quello che ti desidera»
Resto sorpreso da ciò che ha appena detto.
«E Victor?»
«Con lui è diverso» scuote il capo «nessuno si aspetta niente dall'altro. È tutto più facile così. Tu che pensi invece?» beve un lungo sorso di tè dalla sua tazza e accavalla le gambe accarezzando con la mano sinistra la testolina di Plutone. Infila poi la stessa mano nella tasca dei pantaloni dalla quale estrae un pacchetto di sigarette stropicciato e ne accende una.
«fumi in casa?» chiedo e lei annuisce cacciando una nuvoletta, per poi dirmi «non cambiare argomento»
Sospiro leggermente.
«Quando ero in quarta elementare non avevo ancora conosciuto l'amore ma sapevo esattamente come sarebbe stato. Avrebbe avuto i capelli biondi, raccolti in una stretta treccia alla francese che le metteva in risalto le guance paffute. Avrebbe adorato tutte le mie canzoni preferite dei Beatles, avrebbe condiviso la sua merendina con me e io i miei pastelli colorati; non le avrebbe fatto schifo tenermi la mano mentre eravamo in fila e si sarebbe seduta vicino a me sul pulmino della scuola.
Quando l'amore arrivò in quinta elementare non era assolutamente come l'avevo immaginato. Aveva il viso smunto pieno di lentiggini, un taglio a scodella e i capelli rossi. Non sapeva nulla riguardo ai Beatles, non le piaceva condividere la sua merendina con me e non voleva farsi vedere assieme a un bambino dalle sue amichette.

You're so dark (5SOS) Where stories live. Discover now