12. Il fratello di Jonathan

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Non sapeva perché lo stesse facendo: si era infilato in quella prigione di vecchio metallo spontaneamente, dando fiducia ad un uomo che non aveva mai conosciuto e che, per di più, era in possesso di uno dei suoi più grandi e pericolosi segreti.
Quell'uomo aveva in mano oltre che la sua stessa vita, anche l'unica sua ragione di vivere.

Ma Evander non se ne pentiva affatto.
D'altronde, che cosa avrebbe fatto se fosse rimasto a terra? Nulla. Assolutamente nulla. E quel nulla lo spaventava più di ogni altra cosa. E poi, Jonathan era morto, e nessuno avrebbe più potuto fargli del male.
In pochi minuti, si ritrovò seduto su comode poltrone di pelle, con lo sguardo fisso sull'uomo dal mantello, seduto di fronte a lui. In realtà, quest'ultimo aveva deposto il mantello ed era apparso vestito di abiti ricchi e sobri, che confermavano la prima ipotesi di Evander sulla sua estrazione sociale.
Evander si strinse nel cappotto, sebbene all'interno dello shuttle facesse piuttosto caldo.
L'uomo dal mantello lo osservò inclinando la testa, incuriosito.
Poi gli disse: «Puoi levartelo, il cappotto... se vuoi. Il riscaldamento è forse un po' troppo alto, ma, sai, sono abituato al clima di Edresia, e laggiù fa molto caldo».
«Vivete nella capitale?» chiese Evander, incuriosito.
«Solo durante la stagione estiva, in realtà, ma ci ho passato la mia giovinezza».
«Io non ci sono mai stato» disse Evander, quasi a sé stesso.
Dopo qualche secondo, l'uomo dal mantello si alzò e frugò in un cassetto celato da un arazzo che raffigurava una donna dalla carnagione rossastra.
Dopo aver trovato quello che cercava, tornò a sedersi di fronte al ragazzo e disse: «Piacere di fare la tua conoscenza, Evander».
«Io non... non sapevo che Robert avesse un fratello...» mormorò Evander, invece di rispondere.
Kaleb scosse la testa, con un sorriso forzato: «Già: un endar dimentica sempre la sua famiglia. È la sua famiglia... che non dimentica lui».
Detto questo, gli passò un ritratto: «Qui siamo io e mio fratello.
Io sono quello a destra. Robert aveva appena compiuto quindici anni: è stato dipinto poche settimane prima che lui venisse scelto».
Evander annuì: «Sì, è lui. Ha lo stesso sguardo, ma un sorriso che non credo di avergli mai visto».
«Era felice?» chiese allora Kaleb.
«Io... io credo che lo fosse, qualche volta».
«Come è morto?».
«Di malattia».
«Se solo avessi fatto in tempo a vederlo, prima che morisse! Se solo fossi arrivato un giorno prima!».
«Era molto malato, non poteva quasi alzarsi dal letto. Non sarebbe stato felice se voi lo aveste visto in quello stato».
«Ma almeno lo avrei rivisto!» esclamò Kaleb, perdendo il controllo.
Si alzò di scatto, e si diresse verso il piccolo finestrino dello shuttle, perso nei propri ricordi.
Dopo un momento, come rivolto a sé stesso, aggiunse: «Per tutti questi anni ho creduto che fosse morto. E anche prima della sua scomparsa, io non ero per lui altro che uno dei tanti abitanti di questo impero».
Dispiaciuto, Evander cercò invano le parole per consolare quell'uomo sconosciuto. Non poteva comprendere appieno il suo dolore, ma poteva condividere con lui qualche ricordo su Jonathan, per presentargli quel fratello che diceva di non aveva mai davvero conosciuto. Disse:
«"Un endar muore nell'istante in cui entra nella Fortezza di Confine". Jonathan lo ripeteva spesso».
Kaleb sembrò rincuorato dalle sue parole. Si staccò dal finestrino e lo guardò negli occhi, con l'accenno di un sorriso:
«E quindi non gli piaceva essere un endar, è così?».
Evander scosse la testa:
«Lo odiava. Se fosse qui ora, vi direbbe che ha vissuto gli ultimi dodici anni come avrebbe sempre voluto vivere la sua vita. Vi direbbe che è l'uomo più fortunato dell'Impero, perché ha avuto la possibilità di tornare nel mondo dei vivi dopo aver vissuto per quindici anni in una tomba. Era così, che lui la definiva, la vita degli Endar: una tomba».
Kaleb tornò a sedersi di fronte a lui, in ascolto: «E cos'altro diceva?».
«Diceva che il destino era stato molto buono con lui, perché gli aveva restituito la donna che amava e perché...».
Evander si interruppe. Avrebbe voluto mordersi la lingua per ciò che si era quasi lasciato sfuggire.
«Perché?» incalzò Kaleb, attento.
«Perché gli aveva dato la possibilità di farmi da padre» ammise Evander, abbassando lo sguardo a terra.
Kaleb non rispose subito.
«Tu non sei suo figlio, non è così?» disse, dopo un momento.
Evander alzò lo sguardo su di lui: «No, non lo sono».
«É così» annuì Kaleb. «Quando è scomparso, dodici anni fa, Robert non aveva un figlio. E Constance, la donna che amava prima di diventare Endar e con la quale è tornato a vivere, non era incinta quindici anni fa. E tu non puoi avere meno di quindici anni, non è così? Altrimenti non andresti a Tridia oggi».
«Ne ho quindici appena compiuti. Ero un orfano: Jonathan mi ha cresciuto, mi ha fatto da padre, mi ha dato un nome. Mi ha insegnato tutto quello che so».
Kaleb lo guardava con occhi attenti.
«"Evander"...» mormorò fra sé. Poi gli chiese: «Robert ha sempre amato l'etimologia dei nomi... Qual è il significato del tuo nome, Evander?».
«Significa "uomo buono". Quando ero piccolo questo nome non mi piaceva per niente». Evander sorrise, imbarazzato: «Lo trovavo... debole, credo». Il sorriso scomparve, e il ragazzo si fece serio. Dopo qualche secondo, aggiunse: «Ma ora ho capito che non vorrei mai chiamarmi con nessun altro nome».
Dopo qualche secondo, Kaleb, in tono serio, dichiarò: «Sono certo che mio fratello dovesse avere un buon motivo, per darti questo nome».
Poi, gli porse un altro ritratto.
Evander sussultò, riconoscendo il proprio viso. Era un ritratto recente: sei mesi al massimo, quando ancora non sapeva della malattia che presto avrebbe colpito Jonathan.
Gli tornò in mente il momento in cui il maestro lo aveva dipinto: lui stava studiando, sotto la luce della finestra. Nel frattempo, Jonathan, tracciando segni veloci e nervosi sul foglio, non smetteva di interrogarlo a ritmo ferrato. Geografia.
Sentì la voce chiara e decisa di Jonathan nella testa, mentre diceva: «Devi conoscere ogni angolo di quest'impero. E, quando avrai l'età giusta, dovrai visitarlo di persona. Non ti fermare mai a quello che ti dicono gli altri: neppure un libro stampato dice sempre la verità. Conosci davvero solo ciò che vivi in prima persona: ricordalo!».
E pronunciava ogni parola calcando un segno sul foglio, come volesse inciderla direttamente nella memoria dell'allievo.
Le lacrime salirono agli occhi di Evander, ma riuscì a cacciarle indietro prima che bagnassero la fotografia.
«Non era mio padre» disse. «Ma io l'ho sempre amato come se lo fosse».
«E anche lui ti amava come un figlio, Evander. Leggi cosa scrive dietro...» rispose Kaleb, indicandogli il retro con entusiasmo.
Evander girò il ritratto e lesse:
«Kaleb, ti scrivo per chiederti un favore che sono certo non vorrai negarmi. Forse ti sentirai tradito da me per non essere tornato appena ho potuto liberarmi dal peso del mantello nero, ma sono certo che, quando si verificherà l'evento al quale io ho dedicato la mia vita, tu capirai perché non potevo tornare da voi e dirvi: "Io non vi ho mai dimenticato!". Affinché la mia vita non sia sta- ta vana e affinché la mia morte prematura non vanifichi il lavoro di un'intera esistenza, io ti prego, fratello, proteggi questo ragazzo. Constance è morta, io presto la seguirò: gli resti soltanto tu.
Ricorda che vi ho voluto bene. A tutti voi. Ps. Dì a Evander - ricordaglielo sempre - che io non ho mai smesso di credere in lui, neppure per un solo istante. Tuo fratello, Robert Valt».
Evander stette muto per qualche minuto, a fissare quelle righe storte. Ogni riga di quello scritto era impregnata di un sapore amaro per Evander: il sapore del trono. E così, Jonathan lo aveva cresciuto solo perché un giorno lui potesse diventare il salvatore del popolo, come voleva la profezia. Quelle righe lo ferirono, tuttavia non poté provare rancore nei confronti di quell'uomo al quale doveva troppa gratitudine.
Quando aprì bocca, non riuscì a dire altro che: «Ha firmato con il cognome...».
Era stupido che l'unica cosa che gli fosse venuta da dire fosse quella sciocca frase. Ma Lord Kaleb gliene fu grato: «Non era più un endar, quando scrisse queste righe. Era mio fratello».
Gli occhi di Evander si fecero asciutti e secchi. Un nodo gli stringeva la gola, impedendogli di parlare. Si girò verso il finestrino e fissò fuori, senza vedere né sentire più nulla.
«Io l'ho deluso!» mormorò, guardando fisso il finestrino.
Sir Kaleb mormorò: «No. Io non lo credo».

Triplania- il predestinatoWhere stories live. Discover now