XXVIII. Romina e Matteo

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Romina

19 Ottobre 2018

I Murazzi, il Parco del Valentino, Piazza San Carlo, i portici di Via Roma e Palazzo Carignano. In fondo, Torino mi è mancata. Decisamente. Ogni singolo angolo di questa città mi ricorda qualcosa.
Il Museo del Cinema, all'interno della Mole Antonelliana, mi riporta a quel maledetto ascensore panoramico di vetro. Avevo quattordici anni, era il primo appuntamento con Giovanni e avevo una sola certezza: non sarei mai salita su quell'affare, che mi dava i brividi. Soffrivo di vertigini, come adesso, ed ero terrorizzata all'idea di fare una figuraccia, magari di quelle che terminavano con un attacco di panico.
Visitammo la mostra, con poco interesse, che invece era rivolto principalmente a studiare ogni singolo movimento dell'altro. Una volta arrivati alle poltrone che permettono di vedere un finto tappeto di stelle, ci stendemmo uno a fianco all'altro: fu proprio lì che ci scambiammo il nostro primo bacio. Niente di troppo passionale, nè sconcio. Un bacio: puro, semplice, intimo. Era come se ci fossimo solo noi in quel momento. Lo so, è una banale frase degna delle commedie romantiche più trash di Hollywood, ma mi sentivo veramente così. Peccato che poi non sia finita proprio come nei film d'amore, ma quella è un'altra storia. Dopo quel momento mi fidavo di lui, sentivo che avrei potuto fare tutto, anche andare su quel maledetto ascensore. Mi prese per mano, e lo seguii, nonostante compresi subito dove volesse portarmi. Il ricordo della mia colossale figura di merda è una delle cose che vorrei dimenticare, se solo avessi la facoltà di scegliere. Dopo essere saliti di qualche metro, iniziai a urlare in preda al panico, fino a che non mi si offuscò la vista. Sentii le mie gambe cedere, così caddi come una deficiente all'interno di quello spazio ristretto.
Chiaramente, da quel momento in poi, di ascensori non ne ho mai più presi, nemmeno quando devo portare su per le scale le confezioni d'acqua acquistate al supermercato.

Questi ricordi riaffiorano mentre mi trovo imbottigliata nel traffico della prima capitale d'Italia. Ecco, questo non mi era mancato affatto. Sono in corso Unità d'Italia, circondata da altri automobilisti che cercano di raggiungere le loro destinazioni: la mia è via Torricelli, l'indirizzo di casa dei miei genitori.
L'appartamento non è lontano da Corso Vittorio Emanuele II, una delle strade principali della città e, a mano a mano che la colonna di macchine procede, sento una strana emozione invadermi il cuore. Non avevo pensato a come sarebbe stato tornare qui, nel luogo che mi ha vista crescere e diventare donna, che mi ha vista toccare il fondo e rinunciare a tutto, anche al mio sogno. Volevo diventare un avvocato ma, come avrete capito, non è andata proprio così, ma questa è un'altra storia.
Per fortuna, la svolta sulla sinistra mi permette di dileguarmi dalla coda, allontanando anche tutti i pensieri, che in questi anni ho tanto faticato per archiviare in un piccolo, minuscolo e lontano cassetto della memoria, con la speranza di potermene liberare.

Continuo a guidare ancora per diversi minuti, fino a che non riconosco il condominio giallo di mamma e papà. Parcheggio e scendo dall'auto, concedendomi qualche istante per osservare ciò che c'è qui intorno. È tutto perfettamente identico a come lo avevo lasciato, come se non me ne fossi mai andata. Lo stesso cancelletto d'ingresso cigolante e sverniciato e il solito vecchio citofono sgangherato completano il palazzo un po' datato.
La cosa divertente è che i miei genitori non hanno idea che io sia venuta qui a trovarli, quindi probabilmente rischio di causargli un infarto, quando suonerò il campanello. Sono circa due mesi che non li vedo, da quando sono venuti a Busto durante l'estate, prima che si trasferisse Emma.

A proposito della mia coinquilina, le scrivo che sono arrivata, prima che inizi a fare la sorellina minore apprensiva. In realtà vive in un mondo totalmente suo negli ultimi giorni, quindi è già tanto se si ricorda che non ci sono. Ho scelto apposta questo weekend, perchè so che anche lei è fuori per una trasferta, a Cuneo, se non ricordo male.
L'altro giorno, pur di riportarla nel nostro mondo, allontanandola dai suoi pensieri, ho persino iniziato il corso accelerato di pallavolo, per poter poi fare qualche commento che vada oltre ad apprezzamenti sul fisico statuario dei giocatori. Devo dire che questo sport mi sta prendendo molto. Certo, Emma ha scelto per me una partita di un certo spessore, a suo dire: Italia contro Stati Uniti, semifinale delle Olimpiadi di Rio, però la verità è che non sono riuscita a staccare gli occhi dallo schermo nemmeno per un istante.
Pur conoscendo il risultato, posso giurare di aver avuto la tachicardia. In realtà, dal punto di vista tecnico, non so quanto possa aver assimilato: la mia coinquilina ha detto tante cose, tanti termini specifici e io mi sono un po' persa. Però, devo dire che c'è un giocatore che mi ha particolarmente colpita, per la bellezza ovviamente. Non mi ricordo il nome, ma so che era in panchina: mi pare fosse il numero quattro. Non so nemmeno in che ruolo giochi, ma posso dire che quel filo di barba è veramente perfetto sul suo volto. Per non parlare del numero uno della squadra a stelle e strisce: lui mi pare si chiami Anderson. Ragazzo mio, qualsiasi sia il tuo nome, sappi che tua mamma ha veramente fatto un ottimo lavoro.
Menomale che volevi fare commenti sensati e che dimostrassero che ricordi qualcosa di quello che ha detto quella poverina, eh?
Non è colpa mia, io ci ho provato: il problema sono loro, troppo belli, troppo bravi, troppo.

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