Silenziose notizie

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Neanche fosse un orologio, Lee mi inviò un messaggio dove diceva di incontrarci sulla palude. Era solo un messaggio, ma potevo percepire una punta di preoccupazione tra le righe, letteralmente.

Rimontai su Berta che avevo parcheggiato poco lontano dal bar sotto l’ombra di una quercia.

Iniziai a preoccuparmi, accesi il motore e schiacciai il pedale alla velocità della luce.

Parcheggiai vicino alla nostra palude, che ormai avevo imparato a condividere.

Scesi dalla macchina e non mi preoccupai neanche di chiuderla a chiave.

Mi diressi verso Lee a passo veloce, scostai alcuni rami sporgenti che occultavano la tana e la vidi rannicchiata su sé stessa.

Corsi ad abbracciarla, senza dire niente. Mi piaceva così, era come se le anime si legassero tra loro e potessero capirsi senza parole.

Mi spostati davanti a lei per poterla guardare in faccia e le misi i capelli dietro le orecchie.

I suoi occhi a fessura ero pieni di lacrime e gridavano dolore. Devo ammettere che mi si strinse il cuore e l’abbracciai ancora più forte. Non ero mai stato così tanto affettuoso, ma se serviva per farla sentire meglio le avrei addirittura portato un mazzo di gigli.

Lei aveva lo sguardo rivolto verso il panorama, io verso la melma.

- Che cos’hai? – provai a sussurrare.

- Ho voglia di piangere.

- La visita è andata male? – azzardai.

- Stai zitto e consolami.

E così feci. Non ero ancora così tanto bravo a confortare, così tirai fuori le sigarette e glie ne offri una.

- Vuoi? – domandai.
Riuscii a farle alzare la testa dalle ginocchia. Guardò la sigaretta quasi spaurita, poi sbuffò e l’afferrò.

Accesi la mia paglia e passai l’accendino a Lee.

Appena aspirò, la ragazza accanto a me cominciò a tossire così forte che fui costretto a toglierle la bionda dalle mani e buttarla per terra.

Le presi il viso tra le mani e ci guardammo negli occhi.

- Tu non stai bene. Distolse lo sguardo.

Buttai anche la mia sigaretta.

Mi si buttò addosso nascondendo la sua faccia nella mia spalla.

Capii che le parole in quel giorno suonavano stridule, era fastidiose e forse era meglio evitare di parlare. L’unico rumore che sentivo erano i nostri respiri che ormai si erano regolarizzati tra loro.

In meno di due minuti lei si addormentò sopra di me, tra le lacrime e il dolore di quello che per me era ancora un’enorme macchia nera.
Per tutto il lasso di tempo della sua “pennichella”, io le accarezzai i capelli e il viso. Avere un contatto fisico, anche il minimo, per me era l’essenziale: non averlo mi faceva sentire distante.

In quel momento, mi ritrovai a fissare per l’ennesima volta il panorama che ci si poteva godere lassù, e sentì il mio cervello mettersi in moto.
Non sapevo il vero perché della “caduta” di Lee, ma riuscivo comunque a condividere il suo dolore. Volevo che quella ragazza spartisse il suo peso con me in modo da poter soffrire di meno. Lei no però, lei era una guerriera e poteva farcela da sola, non lo diceva ma sono sicuro che lo pensava. Quello che volevo farle capire è che a volte le battaglie si combattono insieme, due combattenti sono meglio di uno. Poi ripensai al fatto che quei pensieri li stavo macchinando io, io che fino a poco tempo fa ero una persona ermetica ed egoista. Mi sembravo rinato e patetico allo stesso tempo. Era lei che mi faceva venire i dubbi. Forse non volevo davvero essere cambiato, forse volevo rimanere nel mio angolino buio della mia scatola.

In mezzo ai miei dubbi e alle mie certezze (che poche ce n’erano), sorgeva ancora una domanda, sempre la stessa: Servono le ali per volare?
Il concetto di “volare” lo può afferrare solo chi è dotato di ali, perciò non noi umani. Ma noi uomini possiamo addentrarci in un bosco di filosofia e possiamo guardare tutto ciò in maniera “differente”.

Gli adulti ci dicono “Torna con i piedi a terra”. Perché lo fanno? Perché non ci vogliono vedere volare, sognare, fare quello che a loro è stato negato.

Ma a noi giovani ci piace sembrare superiori, ed è giusto così. Diciassette o diciotto anni che siano non tornato mai più, almeno non nella stessa vita. Il nostro compito è quello di essere forti e orgogliosi, senza esagerare, o magari a volte si.

Chi può dirci cosa è giusto e cosa è sbagliato? Dobbiamo capirlo da soli, dobbiamo capire da che parte stare. Voliamo basso o planiamo in alto?

In quel momento decisi che non avrei mai più “toccato terra”, perché la terra era falsa, sporca e per tutti. La distesa azzurra era pura, con una sua unica innocenza ed era per pochi. A me piaceva contraddistinguermi dagli altri, mi faceva sentire speciale e volevo sentirmici per una volta. Avrei portato Lee con me, senza dubbio. Quindi magari si, le ali servono eccome per volare, ma dove le avrei trovate? Nonostante tutti quei bei ragionamenti che la mia mente aveva procreato, non ero ancora del tutto convinto della mia teoria, perché ero estremamente insicuro nonostante mi mostrassi forte e saldo sui miei piedi.

Decisi di mettere una delle mie canzoni preferite che mi aiutava a pensare e a rilassarmi: “Easy” dei The Commodores.

Il testo non era così poi tanto impegnativo, ma c’era un verso, quello del ritornello che particolarmente amavo, il quale riuscivo a tradurre la malinconia che c’era nascosta dietro. Dice “Ecco perché sono felice, felice come una domenica mattina”. Non c’erano urli strazianti o cos’altro, nonostante io amassi la musica rock, dovevo ammettere che le canzoni con il sound più belle erano quelle d’epoca.

Misi la musica a basso volume in modo da poter sentire meglio i miei pensieri ed evitando di svegliare Lee.

In meno di un secondo, lo scenario che avevo davanti si trasformò in un video musicale, e chissà se davvero ogni giorno eravamo noi ad essere parte di una recita. Guardando le varie sfumature appartenenti al cielo, pensai che il 3 agosto si stava per avvicinare e che per una volta volevo fare io qualcosa di speciale per Lee. Così un’idea bizzarra mi passò per la testa.

Mancavano solo sei giorni e io volevo davvero organizzare qualcosa di così grande, mi misi in testa che per lei ce la potevo fare.

Mentre la canzone andava avanti, io continuavo ad accarezzare il corpo di Lee, e annusavo l’essenza del suo “io”, che si sentiva da lontano.

Guardarla era come guardare uno strano dipinto, e mi ricordai anche di aver fatto lo stesso pensiero al nostro primo incontro. Non era cambiato nulla in lei, ero cambiato io.

Diedi uno sguardo all’orario, era ora di pranzo ma stranamente la mia pancia non stava gridando aiuto.

Chissà cosa stava sognando Lee? Era una ragazza così enigmatica, testarda, a volte bipolare e impulsiva e non saprei dire se fossero difetti o pregi, ma dal momento che a me piacevano li inserii nella categoria dei valori.

Pensai a chi potevo rivolgermi per la sorpresa dedicata a Lee, e dopo una mezz’oretta scarsa di ricerche, trovai un posticino non lontano da qui ad un buon prezzo.

Ero così curioso della faccia che avrebbe fatto. Avrei dovuto aspettare ancora sei giorni.

Trovai il numero della cooperativa, chiamai e prenotai per domenica sul pomeriggio tardo.

Anche se sapevo di non dover farlo, decisi comunque di svegliare Lee. Prima però, tirai fuori il mio portafoglio e vidi quanti soldi avevo dentro. Erano abbastanza, poteva andare bene.

Airplane. Le ali sono fatte per volareWhere stories live. Discover now