10. Il passato torna sempre a tormentarti

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Avere la casa libera era quasi un miracolo. Alice e Vince erano a lavoro, Emma al campo estivo e Jo aveva deciso di passare i suoi due giorni di riposo fuori città con alcuni suoi amici.

Ero solo, completamente solo. E ne approfittai mettendomi a studiare qualche nuovo accordo sul divano del salotto.

Di solito evitavo di suonare nell'appartamento, per non disturbare nessuno, ma l'appartamento accanto al nostro era sfitto da qualche settimana, perciò mi permisi di osare.

Se qualcuno, al piano di sotto, si fosse infastidito sarebbe venuto a bussarmi, perciò non mi preoccupai poi più di tanto.

Mi sentivo ispirato, come non succedeva da anni, e non potevo rimandare quel flusso creativo. Perché sapevo che, come giungeva repentinamente, allo stesso modo poteva dileguarsi. E almeno volevo assicurarmi di riuscire a scrivere qualche strofa.

Erano anni che non scrivevo nuove canzoni, un po' perché al pubblico piaceva ascoltare i classici del jazz, e un po' perché avevo perso l'ispirazione.

Perciò quella mattina mi estraniai completamente dal resto del mondo. Euforico all'idea di buttare giù un nuovo pezzo, concentrato per paura che l'entusiasmo potesse svanire.

Quando sentii bussare alla porta cercai quasi d'ignorarla, infastidito all'idea che qualcuno stesse intenzionalmente interrompendo il mio estro.

Poteva essere qualche vicino spazientito, ma se invece era qualcosa d'importante, non potevo fare l'indifferente a lungo.

Perciò quando sentii bussare per la quarta volta, chiunque fosse doveva essere molto interessato ad attirare la mia attenzione, mi decisi a lasciare la mia creatività sul divano per andare a vedere chi fosse.

Distratto, e ancora ebbro di note musicali, mi dimenticai di guardare dallo spioncino per accertarmi che fosse qualcuno che conoscevo. Quello fu un grave errore.

Perché quando spalancai la porta, davanti ai miei occhi vide l'ultima persona che mi sarei mai aspettato di incontrare di nuovo nella mia vita.

«Rebecca», erano passati svariati anni ma lei era sempre uguale. Un po' più matura, ma comunque non era cambiata così tanto da impedirmi di riconoscerla.

Mi sorrise quasi in imbarazzo. Peccato che lei l'imbarazzo non sapeva neanche cosa fosse.

«Ciao, Gregor, mi fai entrare?».

«Non dovresti neanche essere qui...», non mi fece finire di parlare, come suo solito e iniziò a dire: «Sì lo so, ma se mi dai cinque minuti potrò...».

«Intendevo dire che non saresti dovuta essere qui, alla mia porta, senza prima aver citofonato al portone. Chi ti ha fatto entrare nel palazzo?».

Assurdo, lei era sparita per dieci anni, lasciandomi un misero biglietti, e io mi preoccupavo di scoprire come fosse entrata.

«In realtà il portone era aperto. Ed è stata mia madre a darmi il tuo indirizzo».

Mi appuntai mentalmente di affiggere un cartello sul pianerottolo per ricordare a tutti i condomini di ricordarsi di chiudere quel maledetto portone. E anche di maledire la mia ex suocera che, ovviamente, non si era fatta gli affari suoi.

«Che cosa vuoi?». Il mio tono forse fu più brusco del solito ma ero scioccato di vederla davanti a me, come se nulla fosse.

La delusione e la rabbia tornarono a galla come se non fosse passato neanche un minuto da quel maledetto giorno.

«Vuoi parlare qui? Sulla porta?», mi fece notare lei, perfino sorridente.

Era bella come la ricordavo. I suoi capelli biondi erano più lunghi dell'ultima volta che l'avevo vista, meno sbarazzini e più ordinati.

Provaci ancora AliceWhere stories live. Discover now