23. Una piccola spinta verso la consapevolezza

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Il primo appartamento che andammo a vedere, tutti e tre insieme, era dall'altra parte della città rispetto alla casa che dividevamo con i ragazzi.

La prima cosa che notai, ovviamente, fu il quartiere. Bello, ordinato, con un parco grande e molti palazzi dalla costruzione moderna.

Emma corse subito a dare un'occhiata alle stanze, cercando di scoprire probabilmente quale fosse la migliore, mentre l'agente immobiliare, una bionda vestita di tutto punto dall'aria molto professionale - sarà stata la cartellina che portava con sé- ci elencava tutte le qualità di quel posto. 

«Qui vicino c'è una fermata dell'autobus, tre scuole elementari e due medie nel giro di due isolati, immagino che abbiate visto il parco qui sotto casa ma non è l'unico. Siamo in una zona adatta alle famiglie come la vostra...».

Non ascoltai neanche più cosa aveva da dirci, già solo che ci aveva scambiato per una famiglia unita e la mia mente era partita per la tangente. 

Ci vedevo già nella spaziosa cucina moderna, la domenica mattina, a preparare i biscotti insiemi. Oppure in soggiorno, seduti su un grande divano, a giocare a monopoli. 

Riuscivo quasi a toccare con mano quella quotidianità che avevo tanto sognato, fin da quando ero piccola. 

Ero sempre stata convinta di non poter ottenere tutto senza prima passare per quella parte fondamentale della vita che tutti chiamiamo matrimonio. 

Come se non fosse possibile essere felici e avere una famiglia senza prima percorrere una navata in bianco. 

E ripensandoci, so che è da stupidi, ma ci misi un po' a capirlo. 

Mi voltai a guardare Gregor, lui era intento a parlare con la donna e sembrava davvero coinvolto da quella conversazione, tanto che non si era reso conto del mio momento di riflessione. 

Lui era quello razionale, tra i due colui che faceva domande serie come le utenze, il vicinato, il prezzo e cose simili.

Io, invece, mi lasciavo guidare dalle emozioni che provavo, mentre comminavo con le mie scarpe con il tacco sul parquet in mogano. 

Mi piaceva l'appartamento, soprattutto perché, al contrario di molti altri che avevamo visto sulle riviste, non era arredato e ciò mi permetteva di viaggiava con l'immaginazione e spaziare con l'interior design. 

Nella mia mente avevo già scelto, insieme a Gregor e ad Emma ovviamente, tutto nei minimi particolari, perfino il colore delle tovagliette per la colazione da abbinare alla perfezione con le presine per il forno. 

Perché in fondo sentirsi a casa significa anche questo: poter riconoscere se stessi anche in questi piccoli particolari. 

Eppure c'era qualcosa che non andava. Una strana sensazione, come un presentimento, che non mi faceva godere quel momento come avrei voluto.

Sarei dovuta essere al settimo cielo. Quella sembrava la casa perfetta per noi.

Emma saltava di gioia, di ritorno dal suo tour veloce, e stava proprio comunicando al padre che aveva scelto la stanza più grande e con la vista sul parco. Praticamente già si era trasferita. 

E anche Gregor sembrava soddisfatto, al punto che, sentendo il prezzo, una smorfia quasi di dolore gli aveva attraversato il viso. 

Tutto sembrava perfetto. Forse troppo perfetto. 

O forse ero io ad essere troppo reticente, perché comprare una casa non è come acquistare un paio di scarpe. 

Per quanto costose possono essere, se poi non ti soddisfano più puoi sempre tornare al negozio e restituirle. Come quel paio di scarpette da ballo che presi, con l'intento d'imparare salsa, e delle quali mi pentii ancor prima di rimettere piede a casa. 

Provaci ancora AliceWhere stories live. Discover now