CAPITOLO 58

374 20 33
                                    

Jimin

Le giornate passavano, imperterrite e lunghe. Terribilmente lunghe. I sogni continuavano e le nottate si facevano sempre più intense, ma quelle salde braccia che lo portavano via dalla montagna continuavano a riapparire.

“00:00”, lesse sul display del suo cellulare: quel brevissimo lasso di tempo che intercorreva tra un giorno e quello successivo.

L'ennesima giornata era finita, sarebbe cambiato qualcosa? Magari sarebbe stato felice? O magari si sarebbe sentito peggio del giorno prima. Era davvero giusto contare il tempo in quel modo? Secondo per secondo? Cosa cambiava tra un secondo e quello successivo?

Assolutamente niente.

Quella notte, pur di non dormire, Jimin si recò al parco per passeggiare, nella speranza di mettere a tacere quel sogno: se restava sveglio, il sogno non poteva tornare, giusto?

Tuttavia, ad impossessarsi della sua mente non furono i sogni, bensì i pensieri, i tarli: Jimin iniziò a piangere, per l'ennesima volta in quei giorni di infinita vanità.

Al parco faceva freddo, era quasi novembre ed era tutto tremendamente isolato. Persino parlare con se stesso era diventato difficile.

La solitudine lo inghiottiva, il vento gli penetrava fin dentro le ossa, ma non gli rispondeva. Eppure migliaia di voci cominciarono ad affollargli la mente.

“È colpa tua, Minnie. È tutta colpa tua. Non avresti dovuto lasciarmi andare su quella montagna”.

“È colpa tua, Chimmy. È tutta colpa tua. Non avresti dovuto crescere così in fretta e abbandonare il mio pianoforte”.

“È colpa tua, Park Jimin. È tutta colpa tua. Non saresti dovuto nascere, così io e la mamma avremmo continuato ad amarci”.

“È colpa tua, tesoro. È tutta colpa tua. Dovresti insistere nel voler parlare con me quando ti volto le spalle”.

È colpa tua, Jimin.

È tutta colpa tua.

Eppure chi gli parlava? Chi gli rispondeva? I morti?

I morti non sentono.

L'unica in grado di rispondergli era solo e soltanto la sua eco.

I suoi pensieri non riguardavano solo Jongsuk, non riguardavano sua nonna né tutte le persone che aveva perso: il tarlo che gli stava divorando l'anima era se stesso.

Jimin era tremendamente stanco.

E poi alle sue orecchie giunse un rumore di passi familiari, e Jimin si rese conto che una prerogativa del rapporto che aveva con il pianista solitario era il tempismo: avevano il potere di trovarsi sempre nel posto giusto al momento giusto, insieme.

«“E Hyung di qua, e hyung di là, uh! Yoongi hyung! Yoon! Amico mio!”... e poi mi rubi la panchina? Sei proprio un ingrato, Jiminie».

Jimin non aveva le forze di sorridere in quel momento, ma pur di non farlo preoccupare, lo fece, facendo leva su quel nomignolo che gli scaldava il cuore e che sempre avrebbe voluto sentir pronunciare dalle sue labbra: «Non sapevo ci fosse scritto il tuo nome», lo prese in giro.

«Non c'è infatti, ma se la osservi bene c'è la forma del mio sedere».

«Davvero? Quale sedere?», fece, voltandosi come a voler verificare se ci fosse davvero.

Yoongi sbuffò contrariato. «Solo perché tu hai un culo gigante non significa che io non ce l'abbia proprio».

«Gigante? Quante volte l'hai guardato per poterlo definire così?».

Moon's Serendipity ~ YoonminWhere stories live. Discover now