Capitolo 70: Switch

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Avevo cercato di distrarmi per tutto il resto della giornata, in tutti i modi, ma quella scena continuava ad ossessionarmi e a tormentarmi. Il non sapere la verità mi uccideva. Non so cosa avrei fatto se avessi avuto la conferma del fatto che mi avesse mentito.

Troppe volte, lui era stato l'eccezione di tutti i miei principi e la cosa non faceva altro che farmi sentire fragile ed estremamente vulnerabile.

Mi piaceva la persona che ero, andavo d'accordo con me stessa la maggior parte delle volte. Ero abituata ai meccanismi di difesa che il mio cervello metteva in atto per proteggersi e la cosa aveva sempre funzionato, impedendomi di soffrire.

In quell'occasione, però, dopo tutte quelle eccezioni, non sapevo che cosa sarebbe potuto accadere o come avrei potuto reagire.

Ero persino nervosa nel bussare alla porta. Non sapevo se avrei dovuto evitare di tirare fuori l'argomento, in modo da risparmiarci una possibile litigata. Pensavo che se avessimo litigato non avrei fatto altro che aiutare quella strega. Dall'altro lato non potevo ignorare la cosa e non sapevo se sarei stata in grado di fingere di non essere turbata.

Quando Dylan mi aprì la porta, mi guardò con una faccia confusa.

«Perché bussi se hai le chiavi?» mi colse di sorpresa. Ero talmente soprappensiero da essermi dimenticata di quel piccolo particolare. Feci spallucce ed entrai nell'appartamento che mi sapeva tanto di casa.

Mi sedetti sul divano, lanciandogli il telefono quando me lo chiese. Parte della nostra tradizione era di allontanarci per una sera dal mondo esterno e da tutte le preoccupazioni, ergo, niente cellulari.

«Ordiniamo da Joyce?» mi chiese, ricordandomi che ne avessimo parlato la settimana prima. Lo sentii ma non lo ascoltai davvero e ci misi più tempo del dovuto a rispondergli. I miei occhi erano puntati sul soffitto e sentii Dylan sedersi accanto a me, permettendomi così di allungare le gambe sulle sue.

«Sei silenziosa bimba» lo percepii squadrarmi, mentre con la mano mi accarezzava lentamente, come una dolce abitudine. Nonostante ciò, non riuscivo a guardarlo.

«Sono solo un po' soprappensiero» optai per una mezza verità, al contrario suo, non me la sentivo di mentirgli spudoratamente.

«Allora dimmi cosa c'è che ti preoccupa» di solito non aveva nemmeno bisogno di chiedermelo, iniziavo a raccontargli tutto come una macchinetta senza freni fino a sviscerare l'argomento. Riusciva a ridimensionare ogni problema soltanto facendomi sfogare.

«Non è nulla di che»

«Perché mi stai mentendo?» mi chiese. A quel punto non riuscii a trattenere una risata, aveva toccato proprio il nervo sbagliato.

«Ah, io» ridacchiai sottovoce, tirandomi all'indietro i capelli. Non riuscivo a stare ferma, mi alzai e iniziai a camminare avanti e indietro per la stanza.

Maledissi me stessa per non essere riuscita a nascondere quello che provassi in quella situazione, ma mi sentivo ferita da una cosa che probabilmente e speravo fosse accaduta soltanto nella mia testa.

«Che ti prende?» a quel punto si alzò e mi costrinse a fermarmi e a guardarlo bloccandomi i fianchi.

«Dimmi che oggi non mi hai mentito e io lascio perdere» gli dissi. Vidi il suo sguardo cambiare, vagare per il mio viso e tornare nei miei occhi. Quei piccoli gesti non facevano altro che aumentare la mia ansia. Perché non poteva semplicemente rispondermi? Perché doveva esitare e lasciare che la paranoia e forse anche la gelosia mi divorassero?

«Se l'avessi fatto, come reagiresti?» decise di chiedere. La risposta mi fece gelare il sangue nelle vene e sentii uno dei miei meccanismi di difesa entrare in atto. Quando litigavamo non riuscivo a stargli vicina, mi allontanavo.

LA's Devil - dicono che tu sia il diavoloWhere stories live. Discover now