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Ed è così che tornai a quella che definivo davvero casa. Con le persone che amavo di più al mondo.

Tasha era diventata, se possibile, ancora più protettiva. Mi aveva messo a riposare nel caldo e comodo letto a una piazza e mezza di Newt e ogni ora veniva a controllare se fosse tutto apposto. Quello che avevo detto in ospedale era vero: Tasha era la mia vera madre.

Mark non perdeva l'occasione di entrare in stanza, anche solo per parlare, ogni volta che poteva. L'azienda dove aveva impiego stava avendo dei problemi di soldi perciò doveva lavorare ancora di più.

Proprio per questo Newt si era trovato un lavoretto in un bar sul lungomare. Ci andava ogni pomeriggio e quando tornava restava tutto il giorno in camera mia per studiare e fare cose che preferirei restassero private. Ogni giorno che passava ero sempre più felice.

Una delle poche cose che mi faceva andare avanti era lui che mi amava incondizionatamente. Non era cambiato nulla nel nostro rapporto da quando Newt aveva saputo del mio problema.

Tasha aveva fatto sparire ogni tipo di lama a eccezione di quattro coltelli chiusi a chiave in un cassetto.

Non parlammo più di quello che era successo. Però a Newt raccontai tutto. Alla fine del mio racconto, lui piangeva silenziosamente, e mi guardava con uno sguardo così triste che persino qualcuno in Alaska avrebbe potuto sentire il mio cuore spezzarsi.

Era passata una settimana ed era lunedì. Ero pronto per tornare a scuola fisicamente ma non potevo dire altrettanto da un punto di vista morale. Newt mi aveva giurato che saremmo stati tutto il tempo insieme e sapevo che non avrebbe infranto la promessa.

Ero davanti scuola, la gente mi guardava per poi avvicinarsi all'orecchio delle persone che aveva accanto e sussurrare parole disprezzanti.

Guardai tutti, mi fissavano. Non c'era una persona che non sparlava su di me.

Sentivo sussurri, fruscii di parole come foglie che cadono dagli alberi spinte dal vento traditore. Cominciai a sentire tutto ovattato, quelle parole mormorate arrivavano indistinte alle mie orecchie. Stava succedendo di nuovo, me lo sentivo.

Però tutto finì. Tutto finì quando la mano calda di Newt strinse di più la mia in un tacito messaggio di presenza in cui mi diceva che non mi avrebbe lasciato solo, non mi avrebbe abbandonato. Sarebbe restato lì a stringermi la mano per farmi capire che lui c'era e ci sarebbe stato sempre per me. Lui non mi avrebbe mai fatto sentito male perché era un angelo sceso dal celo con il compito di non farmi soffrire. Ed è con quel sorriso da creatura paradisiaca che sentii una scarica di forza, di potenza, attraversarmi la colonna vertebrale. Mi sentii più predisposto ad affrontare quel giorno. Inspirai, il mio petto si alzò. Drizzai la schiena e divenni più alto. Alzai lo sguardo, non mi sarei girato indietro. Avrei percorso a testa alta quel corridoio con il mio angelo per mano.

Continuavano a guardarmi ma non ci badavo. Camminavo passo dopo passo, ogni minima distanza percorsa mi faceva sentire più energico. Entrai in classe. Il professore ancora non c'era. Tutti i miei compagni smisero di parlare, avevo intuito di chi. Tutti tranne tre che continuarono il loro discorso.

Notai con piacere che non parlavano di me. C'era Minho, che parlava di quanto fosse fantastica quell'anno la squadra dei velocisti.

C'era Winston, un ragazzo a cui non avevo fatto molto caso, se non mi sbaglio facevamo un paio di corsi insieme. Era abbastanza simpatico devo dire.

E poi c'era Frypan, l'avevo incontrato due volte. La prima era quando ero andato ad ubriacarmi del nightclub, era il barman. La seconda era durante il party dove avevo picchiato Alby. Si era messo a sedere vicino a me e mi aveva parlato di quanto amasse il suo ragazzo.

Maybe in another life ~Newtmas Where stories live. Discover now