15. Mi hai detto che mi ami

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Lascio la casa di Helen come una furia

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Lascio la casa di Helen come una furia. E più ci penso più sono confuso: sono stato io a comportarmi da stronzo presentandomi lì e cercando di sedurla – anche se mi ci è voluto davvero poco – oppure la stronza è stata lei che mi ha usato come dildo personale per poi sbattermi fuori. Ci sarebbe mancato che mi avesse pagato e mi sarei sentito un dannato gigolò. Perché, Cristo, sto cercando di trovare una spiegazione, ma non me ne viene nemmeno una. Io avrei delle ragioni più che valide per starle alla larga, lei non ne ha. A meno che il problema non sia ancora la stupida scopata con la sua amica. Che sia o non sia incinta, non lo so e non m'interessa, ma se dovesse esserlo di sicuro non è mio. Non sono scemo, uso sempre il preservativo e controllo sempre che sia intatto prima di buttarlo. Sarò paranoico o troppo pignolo, ma è così che faccio da quando ho scopato per la prima volta. Ed è così che ho fatto in quel vicolo con April. Possibile che Helen cerchi di resistermi solo per quello che è successo quella notte? Perché non posso non piacerle, ho visto le reazioni del suo corpo al mio tocco, le ho sentite sulla mia mano, cazzo. L'ho vista fremere, tremare e venire sulle mie cazzo di dita in tempi record.

Non sono mai stato così confuso in vita mia. Anzi, nessuna donna al mondo è mai riuscita a confondermi le idee. Io prendo e do quello che voglio quando lo voglio, nessuna mi ha mai respinto. Nemmeno la madre di Trevor quattro anni fa, sebbene fossi un diciassettenne davvero stronzo. Cazzo, nemmeno la mia professoressa di Letteratura è riuscita a resistermi.

Avevo diciannove anni quando me la sono fatta per la prima volta, quasi due anni fa. Ero al secondo anno allo Stanford quando lei ha sostituito il professore che doveva andare in pensione. Quando l'ho vista per la prima volta qualcosa nel suo sguardo mi ha catturato. Era davvero una bella donna: tra i trenta e i quaranta, con un fisico slanciato e una quinta di reggiseno; indossava sempre jeans e magliette che la facevano sembrare quasi mia coetanea. Ricordo ancora i lunghissimi capelli castani tenuti sempre legati in uno chignon basso, tranne quando ero io a farglielo sciogliere, e i suoi occhi profondi. Non avevano nulla di particolare, erano castani come i suoi capelli, ma facevano capire quanto la loro proprietaria non fosse appagata dalla vita. Erano tristi, anche quando lei sorrideva. E io, stronzo com'ero all'epoca, mi approfittai di quella sua debolezza per entrarle nelle mutande. Sapete quanto mi ci volle? Un unico incontro nel suo ufficio.

Ci ero andato con una scusa, avevo chiuso la porta dietro di me e mi ero limitato a fissarla negli occhi. Poi le avevo parlato con la mia voce roca, le dissi le parole che nessuno le diceva da anni e che ardeva dal desiderio di sentirsi dire: che era bellissima, che era un peccato che fosse già sposata e che quell'uomo avrebbe dovuto trattarla come la principessa che era. Tutte cazzate, ma che funzionarono alla grande dato che dieci minuti più tardi l'avevo già fatta stendere sulla sua stessa scrivania. Ha spalancato le gambe per me, molto più di una volta sola, e non mi sono nemmeno dovuto sforzare per farglielo fare.

Ora invece, mi trovo una fottuta ragazzina di campagna che può soltanto ritenersi fortunata che sia disposto a rivolgerle le mie attenzioni che mi ha respinto per ben due volte. Qui le cose sono due: o sto perdendo il mio charme o è lei a essere cieca o stupida.

Tutta colpa di un sorrisoWhere stories live. Discover now