Capitolo 7:

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ESME:
Alzo gli occhi.
È quasi l'ora di pranzo.
Osservo gli alberi che circondano l'ospedale le cui chiome ondeggiano lentamente al vento.
Continuo a correre sentendo il calore appiccicoso del sudore sulla pelle.
Sembra che il mondo scorra velocissimo in questo momento eppure è fermo, sono solo io che continuo a correre.
L'aria mi manca.
Le gambe tremano stanche e mi chino poggiando le mani sulle ginocchia, con il respiro affannato.
L'unica soluzione a tutto questo è fuggire.
Andare dove lui non possa trovarmi.
So che Jonatan vuole arrivare a me, e non appena avrà la certezza che quel piccolo puntino che custodisco nel grembo è suo figlio scoppierà il caos.
Ho questo bruttissimo presentimento.
Riprendo velocemente a camminare.
Giungo a casa dove trovo mia madre e mio fratello seduti intorno al tavolo.
Non presto molta attenzione a questo ma un secondo dopo, quando realizzo la situazione, torno indietro piazzandomi davanti a loro.
Questa cosa non la fanno mai.
Nessuno si riunisce per l'ora di pranzo, non più dopo la morte di mio padre. Ognuno mangia per conto suo.
Sollevo un sopracciglio quando noto le loro facce spaventate.
"Emanuel?" Domando chinando la testa per osservarlo meglio.
Non mi piace quest'aria tesa.
"Ciao." Dice cercando di essere il più convincente possibile ma una lacrima caduta per sbaglio sulla guancia lo contraddice.
Mamma invece ha uno sguardo perso nel vuoto.
E solo quando sento qualcosa di freddo e appuntito posarsi sul mio collo le mie teorie si confermano.
Non c'è bisogno che lui parli, perché riconosco il suo profumo. È particolare e intenso.
"Ciao Esme."
Ogni fibra del mio corpo esplode.
Le gambe si trasformano in gelatina e cedono, ma il bastardo prontamente mi sorregge premendo il coltello più in profondità, fino a far sanguinare la mia pelle.
"Jonatan.. cosa vuoi?"
"Parlare con te."
Strizzo gli occhi tentando di dimenarmi ma le sue braccia muscolose non hanno intenzione di lasciarmi andare.
Emanuel piange mentre mamma volta la testa e porta le mani tra i capelli.
Leggo la paura negli occhi di mio fratello, ed è solo colpa mia.
Mi sento male.
In questo momento vorrei svegliarmi e rendermi conto che tutto questo è solo un bruttissimo incubo.
Questa storia è andata troppo oltre.
Noto con molta delusione che Jonatan lancia una mezzetta arrotolata di banconote sul tavolo prima di ringraziare mamma che, allunga la mano e intasca i soldi senza nemmeno avere il coraggio di guardarmi in faccia.
Serro i denti disgustata e sputo sul tavolo, proprio accanto a lei.
"Ti odio."
È una persona stomachevole.
Attratta solo dai soldi e dal sesso.
Non le importa niente dei suoi figli, è stata capace di accogliere un pazzo in casa sua e di vendermi a lui senza pudore.
'La disperazione porta le persone a cambiare.' Diceva papà.
Beh lei non è cambiata. È solo emersa la persona schifosa che è realmente.
Vengo trascinata di peso fuori da casa dall'uomo dietro le mie spalle e sbattuta violentemente contro quella che credo sia la sua auto.
La noto solo ora.
Ma quando i suoi occhi raggiungono i miei non riesco a pensare più a nulla.
La paura mi divora.
Ed è una sensazione orribile.
La sua mascella è tesa così come tutto il suo enorme corpo.
"Che diavolo vuoi da me?! Io non ti ho fatto niente!"
"Sali in macchina."
"Fanculo sali tu sopra questa stupida auto! Io non ho paura di te!" Mento spudoratamente.
In realtà sono spaventata a morte e basterebbe una sola mossa per piegarmi.
Ma non posso mostrarmi debole ai suoi occhi. Non è questo che mi ha insegnato mio padre.
Il tizio davanti a me si lecca nervosamente le labbra e tira il lembo della giacca, scoprendo la pistola.
"Non voglio usare la violenza."
Penso che sia tardi ormai per dire una frase del genere ma non rispondo. Rimango muta come un pesce.
Jonatan annuisce e molto tranquillamente afferra i miei capelli in un pugno saldo.
Apre la portiera e mi spenge all'interno della macchina.

JONATAN:
Durante tutto il viaggio Esme non proferisce parola.
Non fa domande, non fiata e per un secondo penso addirittura che sia svenuta.
Ma quando le lancio un'occhiata sfuggente dal finestrino mi accorgo che sta piangendo.
Ha le guance rosse esattamente come le labbra carnose
Non mi piace vedere le persone piangere.
È l'unica emozione che mi suscita nervosismo.
Tutte le altre riesco benissimo ad ignorarle.
Eppure il pianto mi ricollega a fatti accaduti parecchi anni fa e mi fa imbestialire.
"Siamo arrivati." Dico seccato e lei senza indugio volta la testa verso il finestrino, osservando centimetro per centimetro la struttura torreggiante davanti a lei.
"Se hai intenzione di uccidermi fallo adesso."
Trattengo una risata grattando il mento.
"Se ti avessi voluta morta lo saresti già stata."
Ed esco dall'auto.
Non faccio in tempo ad aprire la portiera che trovo Esme in piedi sul marciapiede.
Indossa un jeans strappato e una maglietta semplicissima rosa che risalta il colore pallido della sua morbida pelle.
È la prima volta che una persona non scappa da me dopo averla prelevata da casa sua, contro il suo volere.
Quasi apprezzo.
"Non sei tu il padre di questo bambino. Ma se non mi credi possiamo fare il test di paternità."
Solo la parola padre mi fa venire le vertigini.
"È quello che sto facendo Esme. I giochi inversi con me non funzionano." Afferro il suo braccio e la trascino oltre il cancello nero difronte a noi.

ESME:
Tre uomini ben piazzati e vestiti completamente di nero si affiancano a noi, scortandoci fino all'ultimo piano dell'edificio.
Il mio respiro trema.
Non c'è scampo.
Sono completamente fottuta.
Osservo la cartina attaccata al metallo dell'ascensore ispezionando ogni singola via d'uscita. Tento di attuare un piano sul momento ma le porte dell'ascensore si aprono mostrandomi la visuale di un corridoio perfettamente in ordine e una porta marrone alla fine.
"Cammina." Uno di loro, quello con la cicatrice spaventosa proprio sotto lo zigomo e il pizzetto grigio, mi incita a seguire Jonatan spingendomi dalle spalle.
Questi uomini sono spaventosi, proprio come lui.
Mi guardo intorno.
Questo dev'essere sicuramente una clinica privata.
Guardo Jonatan entrare dentro la stanza, un dottore gli stringe la mano poi tutti e due puntano gli occhi su di me e iniziano a discutere.
Mi sento in gabbia.
Come se fossi in una stanza completamente buia, senza finestre o porte, e non potessi uscire.
Mi chiedo come cazzo ci sia arrivata fino a qua.
Sollevo la testa solo quando il bastardo si avvicina.
Indietreggio deglutendo.
Lui non dice nulla.
Indica la porta con un movimento di testa chiedendomi palesemente di entrare.
Lo osservo con gli occhi pieni di lacrime. La vista inizia a farsi sempre più offuscata e scuoto la testa coprendo il volto con le mani.
Tutti mi fissano.
Mi sento una fallita.
Dovevo proteggere il mio bambino e non ce l'ho fatta.
Continuo a piangere ignorando il fatto che inizio a sentirmi male, quasi frastornata.
Solo quando percepisco una pressione al collo volto la testa e mi rendo conto che qualcuno mi sta bucando con una siringa.
"No.. Jonatan.. io.. ti supplico."
Le palpebre diventano mattoni pesanti.
Poi boom.
Di nuovo e solamente il buio.

PHILOFOBIA.Where stories live. Discover now