Chapter 8: Pain

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«Io ti ho detto che ti amavo, ma tu ti sei addormentata prima di sentirlo»

Tutto, nella mia testa, nello spazio attorno a me, persino i rumori delle candide onde che si infrangono sul bagnasciuga umido della spiaggia, si è fatto semplicemente silenzioso.

La mia testa, i miei pensieri, i miei demoni, si sono acquietati dentro di me.

Ma la mia anima, no, quella no. L'unico rumore che sono riuscita a captare proviene da quel posto insidioso e marcio dove essa si è sempre crogiolata nei miei peccati: mi è sembrato di sentirlo sulla mia pelle, sulle pareti ingrigite e già tanto ammaccate del mio stupido cuore malato quel crack.

Il suono che ha fatto la mia invisibile, ma fin troppo presente, anima, quando si è definitivamente spezzata. Come un fragile ramo che è stato colpito da un fulmine violento, sul colpo. Si è strappata, auto consumata, ridotta in insensati, svolazzanti, brandelli, non visibili agli occhi umani, indegni di particolari attenzioni.

Li sento volteggiare, dentro di me, e poi poggiarsi nel fondo del pozzo oscuro, la cui acqua nera e impura è la vera me, per rimanere, indifferentemente, immobili.

E tutto, per una semplice, stupidissima frase, lanciata su di me, impregnata di sincerità, che però non so essere autentica o no.

Il vuoto in cui ormai sono piantati i miei occhi da non so più quanto tempo, sembra subentrare nel mio corpo attraverso la pelle scoperta, l'aria che sto respirando a malapena, o semplicemente si sta unendo a quello che c'era già.

Una lacrima silenziosa, distruttiva, scende lungo la mia guancia, ed è come se risucchiasse la luce abbagliante del sole che la illumina, tant'è carica di quei sentimenti che sono stati trattenuti da fin troppo tempo e che si sono manifestati solo in quella piccola quantità di acqua salata che mi sta rigando la pelle del volto.

Sono stanca di lottare.

Me lo ripeto in testa, come una mantra, ma so benissimo che non risolverà un bel niente facendolo, perché nonostante io sia sfinita, ammaccata, rotta, prosciugata, ho ancora qualcosa per cui lottare.

Sono arrivata fin qui, non mollerò mai. Per i miei figli.

«Ti prego, bimba, dì qualcosa» a causa delle parole di Dylan mi risveglio dallo stato di trance in cui ero caduta, mi ricordo della sua presenza a pochi centimetri da me.

Un venticello accarezza la mia pelle e solo in questo momento mi accorgo che siamo sul tetto dell'hotel.

Tsk, incredibile come solo la sua presenza mi faccia dimenticare o, in questo caso, mi impedisca persino di osservare il posto in cui mi trovo.

«Questo..» Deglutisco, prendendomi un pausa da quello che sto per dire, perché se non a lui, farà del male a me, come se anche il mio corpo si rifiutasse di mentirgli in questo modo, ma prendo coraggio. «Questo non cambia niente» la mia voce tradisce la mia faccia che, almeno credo, è imperscrutabile, ma mi impongo di reggere, con tutte le mie forze, il suo sguardo, macchiato di sofferenza e delusione.

«Io non posso perdonarti, Dyl» dico, sul punto di mettermi a piangere come un innocente bambina.

«Iris, per..» Comincia a dire, ma le mie mani, persino prima che me ne accorga io stessa, lo spingono e lo fanno retrocedere di quel che basta per aprire velocemente la porta cosicché le mie gambe, in un modo ancora più rapido, possano prendere a muoversi e a correre giù per le infinite scale che, gradino per gradino, mi portano sempre più lontana da lui.

Mentre corro via da lui però, non mi sento né salva né sollevata.

Mi sento soffocata, come in una trappola mortale.

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