Star Color 2

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continuo...

Il sole stava calando e ormai io ero pronto, davanti la porta, per uscire e continuare il compito d'arte.

Volevo prendere trenta. lo desideravo. ma non per rendere felice me; lo volevo soltanto per sminuire quelle voci, quelle che giravano su di me all'università.

Ovvio, lo volevo anche per un mio orgoglio personale, ma avrei fatto di tutto pur di zittire gli stronzi che credevano che io non fossi capace, solo per il mio autismo. Valevo anch'io. Ero un puntino, ma valgono anche quelli, no?

con la mia valigetta sotto braccio, e un sacchetto con snack e fiammiferi all'interno, ero pronto ad uscire dalla porta, e lasciare casa.

Vivevo da solo. Ho avuto la fortuna di saper badare a me stesso nonostante la mia condizione, e ne andavo fiero. Non avevo problemi, infondo, non era una malattia, l'autismo.

E anche se gli altri non lo capivano, mi rendeva speciale. Ero in grado di capire cose che gli altri non avrebbero mai immaginato di apprendere. Io non sapevo come atteggiarmi con le emozioni, ma chissà perché, quelle degli altri le capivo. Era un superpotere per me, quando ero bambino soprattutto.

Era come se riuscissi ad entrare dentro di loro e scorgere ogni fessura, trovando anche la briciola più piccola delle emozioni. E mi piaceva. Mi piaceva tanto perché se non provavo la mia, almeno potevo provare quelle degli altri.

Questo però mi rese...

Scontroso.

Molto scontroso.

La tolleranza per me esisteva solo per l'arte. Con precisione, la mia, di arte.

Tolleravo persino gli errori nei quadri, perché li rendevano più unici, come una firma. E d'altronde, per gli altri anch'io ero un'errore, ma è la mia particolarità, la mia firma.

Uscii dall'appartamento, nonostante il cielo nuvoloso e le gocce che mi cadevano sul naso, ma dovevo andare fuori città e prendere la metro, il tempo sarebbe sicuramente cambiato.

Le vie della città erano umide. Sui marciapiedi riflettevano i lampioni della luce, e quando arrivai alla metropolitana, c'era un tipo che mi parve conoscente. Non era molto alto, ma quelle spalle possenti non le dimenticherei mai. Era un mio compagno di corso, il più bravo dopo di me. Lo incrociavo spesso ma non per cose buone. Mi vide e non ci pensò un'attimo a venirmi incontro. E giuro che tremai, tremai così tanto sotto la mia camicetta che era impossibile non notarlo.

«Shiro.... Che ci fai qui?» gli chiesi per primo, solo per rendermi meno esile di quello che sono.

Quando me lo ritrovavo davanti avevo sempre l'illusione di vederlo grigio, molto cupo. Anche se il suo stile di abbigliamento era il contrario, lui era così.

All'università girava voce della sua famiglia, qualcosa sul padre, ma non ho mai saputo nulla perché semplicemente non m'interessava.

«Beh, andavo dalla mia tipa, e tu frocetto? vai forse a farti fottere da qualcuno?» rise, e quella risata portò via una parte del mio piccolo ego.

Non è colpa mia...

Non lo è...

è un un altro mio difetto? lo è?--

«Sì, cazzone, mi aspetta tuo padre.» ero bravo a controbattere nonostante le ferite astratte. Puntai al suo punto debole, ma quando cambiò l'espressione sul volto e serrò i pugni, avrei voluto non volerlo fare.

«Ripetilo»

«Cosa c'è, uhm? Non ti ha detto niente? Peccato perché io e lui siamo così intimi» era al limite della sua sopportazione della rabbia, e sapevo che da un momento all'altro mi sarei ritrovato con una costola inclinata o un'occhio nero.

Kiribaku  One Shot Where stories live. Discover now