𝕊𝕥𝕒𝕣𝕤 𝕔𝕠𝕝𝕠𝕣 𝟛

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Stavo per chiamare un taxi così da tornare nel mio appartamento. Pioveva e il cielo era completamente grigio con ormai pochi spiragli di luce. E nel bel mezzo di questo scroscio lo riconobbi.

Correva da un marciapiede ad un altro, con un passo più leggero e delicato del solito, cercando di ripararsi sotto i balconi degli edifici. Non aveva un ombrello e cercava di ripararsi il più possibile con la borsa, che portava solitamente all'università per contenere il portatile e gli appunti delle lezioni. Erano circa le cinque di pomeriggio quando lo vidi impalarsi in un'angolo senza riparo, e lo sorpresi a fissarmi come se fossi stato il sole in quella tempesta.

Attraversò la strada correndo ma facendo attenzione alle auto, e solo quando l'autista mi chiese se salivo o no sul veicolo mi disincantai. Ero rimasto tutto il tempo a fissarlo e non mi accorsi neanche che l'ombrello non era più sopra la mia testa e ,che i miei capelli e il giubbotto erano completamente fradici.

Le mie guance divennero più rosee, e non per il freddo, quando tolse delicatamente dalle mie dita l'ombrello e me lo piazzò egli stesso sul capo, senza badare a se stesso. La punta del suo naso era completamente rossa, così come le sue goti, e per un momento mi preoccupai per il colore decisamente troppo acceso, ma mi passò di mente dopo poco.

«Vai a casa?» mi domandò con l'affanno. Mi fissava intensamente, con quelle palpebre socchiuse prive di qualunque forma di avidità.

Lo conoscevo ormai da più di un mese, mi aiutò anche con il dipinto che consegnai la settimana prima insieme a una relazione.

«Uhm... In realtà no. Vado in un locale poco lontano da qui.» Negai . Qualsiasi conversazione che tenevo con lui era adombrata da miscele tratteggiate d'impaccio impastato all'imbarazzo.

«Fantastico! Posso venire con te?» Mi chiese. Il suo tono di voce era più roco e cupo, ma in quel momento ero concentrato su altro. Era proprio quando esclamava in quel modo, che ogni mia percezione legata alla coscienza si disgregava per accozzarsi alla piaggia. Il tassista interpretava premura solo con lo sguardo accigliato che non mi si scollava di dosso, quindi non feci altro che accettare. Anche se sapevo che con premura o senza, avrei accettato comunque, perché Kirishima diventò cruciale nella mia vita. Lo diventò come mai nessun'altro.

Lo diventò come l'albicocco a giugno e le primule in primavera. In un mese sembrava come se noi due ci conoscessimo da anni: gli anni più belli.

Ero così abituato ad avvizzire come i ceppi d'inverno, che non mi accorsi neanche che l'estate era arrivata. Sempre dopo un lungo tempo di freddo e gelo arriva sempre l'estate. Ma io sentivo ancora un po' di freddo.

Non riuscivo a scrollarmi di dosso le abitudini nonostante i cambi di programma continui. Imparare era più facile dalle parole scritte sui libri, che dalle parole incise sulla pelle o da quelle che uscivano dalle labbra altrui.

Nel taxi nessuno spiccava parola, io fingevo di star messaggiando al cellulare, anche se non avevo nessuno a cui scrivere se non lui e mia madre. Quindi, scrivevo sugli appunti spunti o idee per nuovi sketch o dipinti.

Lui... Precisamente non avevo la più pallida idea di cosa lui stesse facendo in quel preciso momento. Il corpo era abbandonato al sedile, e il capo era premuto contro il finestrino. Era come se rilevasse qualcosa al di fuori del finestrino. Esaminava con cura ogni singolo dettaglio: le gocce che spiccavano sul vetro con leggeri crepitii, la persone che passavano, i bambini che saltavano sulle modiche concave d'acqua, persino gli anziani sulle panchine con i paracqua gocciolanti.

Ed era come se si elettrizzasse a raccogliere quei dettagli che qualcuno avrebbe preferito ignorare. E allora presi fiato, come se mi stessi preparando ad un'apnea o ad un discorso di vitale importanza, e glielo chiesi.

Kiribaku  One Shot Where stories live. Discover now