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Lucide cascate bionde, calde, si appoggiavano disordinate sulla schiena coperta di magliette e maglioni.
Stringeva un libro consumato, con la spina rotta su più punti; non si leggeva più il titolo lì, perché le piccole lettere di vernice dorate si erano piegate fino a sgretolarsi, e rimanevano pochi simboli che ne rendevano incomprensibile la lettura. Diana lo serrava tra le braccia come fosse un piccolissimo neonato, da proteggere ad ogni costo.
Si ricordò di Alberto, ma il solo barlume di rimembranza le fece alzare gli occhi al cielo esasperata.
Era così infastidita.
Eppure rimaneva una parte di tenerezza nei suoi confronti, che Diana era consapevole fosse incancellabile. Era presuntuoso pensare di potere comandare ad un sentimento così semplice ed incontaminato.
Seduta nell'aula, le sue ginocchia strusciavano tra loro, e la tessitura dei collant aveva un sentore ruvido e poco confortante.
Diana si curò di poggiare il libro sul suo piccolo spazio nel lungo banco, e di coprire con entrambe le mani la copertina, assicurandosi di tenere i palmi sia sulla figura che sul titolo. Si osservò le unghie, delle mandorle precise e lisce, colorate uniformemente di azzurro.
Un azzurro limpido, chiaro e gentile, piacevole da guardare.
Arrivò la docente, che salutò con rigidità e distacco tutti i presenti nell'aula, prima di fare un veloce e poco curato appello.
Diana riuscì a concentrarsi finché arrivò il suo turno di confermare la presenza, dopo si immerse nella lettura del libro che teneva fermo sul banco, un ampio saggio sul teatro e cultura musicale alternativa nell'Unione Sovietica.
Nonostante fosse nel bel mezzo delle pagine, nel bel mezzo di un paragrafo, e quasi a metà di una riga — dunque dovesse avere più che chiaro ciò che stava succedendo tra le fitte linee di inchiostro che stava leggendo, Diana era con le iridi blu disperse tra le lettere. Le sue pupille si erano come trasformate in quei simboli, in quelle parole, ed ora riusciva a fissare il suo stesso volto chino sulle pagine rovinate.
Le sue ciglia incurvate erano sporche di mascara in maniera disordinata, le sue labbra erano secche e pallide, il suo naso appuntito era lucido sulla punta e sotto le narici.
Deglutì e distolse lo sguardo dal libro.
— Alberto.
Sospirò, e pensò quel nome come se stesse alzando il braccio pallido, sventolando una bandiera bianca.
— Perché devi essere un tale stronzo e sconsiderato?
Premette le sue falangette sulla superficie liscia del libro finché la pelle attorno alle unghie non diventò completamente bianca e fu contornata di rosso.
Chiuse il libro, tornò a stringerlo al suo petto, riafferrò da terra la sua borsa di tela, che le era stata regalata da una libreria indipendente che portava principalmente saggi, romanzi e raccolte di poesie di scrittrici e scrittori russe e russi. Si alzò, sistemò la gonna di velluto marrone sulle gambe, e fece per andarsene via.
Non fu risparmiata dalla furia della docente, che segnò accanto al suo nome una vergognosissima uscita anticipata, a venti minuti dall'inizio della lezione.
Nei corridoi dell'università, persino l'aria ormai le ricordava Alberto, e ricordò quel maledetto approccio.
— Ciao, sai mica dove posso prendere un caffè al volo? Una macchinetta qui vicino? Che fa, mi ci porti? Io mi perdo sul serio. Sono uno distratto, sai, io.
Diana pensò che nulla di male poteva succedere all'università, poi la zona dei distributori era sempre particolarmente frequentata. Inoltre, sperava vivamente che quello sconosciuto le offrisse un caffè.
Mentre camminava davanti a lui, Diana si sistemò gli occhiali sul naso, e storse un po' le labbra in una smorfia concentrata mentre riafferrava il suo libro di Storia delle donne e delle identità di genere.
Ci aveva lasciato un evidenziatore azzurro pastello dentro, come segnalibro.
— Senti, io sono Alberto. Tu sei?
Lei si voltò seccata. "Non vedi che sto leggendo?!"
— Diana.
Rispose seria, guardandolo dai piedi alla testa, con degli occhi severi e vitali, che brillavano al sole, diventando così chiari da sembrare una pozza d'acqua sotto il cielo sereno.
Superata la finestra al loro fianco, tornarono blu scuro.
Alberto non riuscì più a dimenticare quella amabile coincidenza del pronunciare il suo nome, in contemporanea con l'arrivo della breccia di sole sul suo viso.
Il volto di Alberto ricordava a Diana quello di Louis Garrel, solo meno serio.
Sorrideva anche se lei era subdolamente scontrosa, e la sua pelle era abbronzata, costellata da qualche neo, e delle occhiaie coloravano di porpora il contorno dei suoi occhi.
Le sue iridi erano molto scure, di un marrone freddo, che cozzava col suo sguardo e col suo timbro di voce accogliente e caldo.
Diana rimase seria, lo osservò sorridere per qualche secondo, in silenzio entrambi; poi si girò a guardare davanti a sé, camminando più spedita.
— Lì.
Lei indicò le macchinette libere con un dito, delle ragazze chiacchieravano appoggiate al lato di esse.
— Dai, ti offro un caffè.
— Grazie.
— Quindi, Diana, tu che studi?
— Lingua, cultura e letteratura russa.
— Ah, bellissimo, sì, certo, i russi... senti, fumi?

Paglie | TananaiWhere stories live. Discover now