IX

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Diana volteggiò su se stessa, mordendosi l'interno di una guancia, in soprappensiero.
— Che ti prende?
Alberto lo chiese in maniera distratta, mentre smanettava al computer. Ogni tanto borbottava cosa stava facendo, imprecava sottovoce e gonfiava le guance in una smorfia buffa di concentrazione. Si era tagliato accidentalmente su dei punti casuali del collo con la lametta da barba, quella mattina. Gli davano un'aria molto trasandata, assieme ai capelli spettinati ed alla maglietta vecchissima dell'Adidas che portava addosso.
Diana decise di spiegargli ciò che era successo con Clara, la giornalista per Italingrado, del suo libro trovato con fatica — enfatizzando ogni singolo passaggio speso e sofferto nel ricercare il mattone di pagine, e di come il suo argomento e le sue fonti fossero state copiate spudoratamente da persone con più tempo ed audacia in mano rispetto a lei.

In fondo, pensava Diana, Alberto l'avrebbe capita: anche lui produceva qualcosa, lavorava con creatività, poteva immedesimarsi nella sua sofferenza e frustrazione. Se c'era la fiducia necessaria per dormire insieme, che mai sarebbe stato un dettaglio del genere? Ne valeva la pena di iniziare a condividere frammenti di quotidianità.

Diana raccontava, e l'espressione di Alberto rimase uguale per tutto il tempo, non la guardò in viso, era concentrato al monitor con sopra le onde sonore di diversi colori disposte su file parallele.
Si degnò di aprire le labbra soltanto dopo qualche lungo secondo di silenzio. Diana si sentiva la bocca secca ed il cuore pulsava alla ricerca di attenzione.
— Beh, capita a chiunque.
Alzò le spalle, si tirò la pelle attorno agli occhi con stanchezza, e sbadigliò.

Diana si sentì il cuore scendere ai piedi.
Senza dire nulla, andò a rollarsi una sigaretta in balcone, sperando che potesse calmarle quella sensazione terribile di delusione e pentimento.
Pentimento perché: come si era permessa di fidarsi di qualcuno? Doveva aspettarsi, in qualche scenario ipotetico, che Alberto avrebbe risposto così.
Non gli avrebbe parlato per un po', non le andava.
Lui in ogni caso stava lavorando, non si sarebbe accorto del suo silenzio.

Così Diana si colpevolizzò, di essersi azzardata di donare fiducia a qualcuno che le donava affetto. Si vergognò di avere cercato vicinanza, comprensione ed un orecchio attento.

Si sentì come quando aveva otto anni, nella cucina della nonna a Bratislava, e si preparava un piccolo panino al latte con dentro della marmellata e del latte condensato: ancora non era intollerante.
Suo padre passò di lì, e le chiese se potesse preparargli un panino uguale, visto che già c'era.
Si mise seduto al tavolo appena dietro, a leggere il giornale.
La bambina decise di preparare il panino con la crema di marmellata e latte su entrambi i lati, farcendolo bene, per mostrare quanto voleva bene a suo padre, quanto si curava che il suo panino fosse ripieno e buono — oltre ad avere ceduto a lui quel panino che doveva essere suo.
Glielo portò avvolto per metà in un foglio di carta assorbente, ed esclamò «Guarda che è con la super marmellata!».
L'uomo si grattò la barba, prese il panino dalla manina pallida, senza mai staccare gli occhi dal giornale, con uno sguardo assonnato e boccheggiando come se avesse appena sbadigliato.
«Tranquilla, non ci fa niente.»
Non l'aveva ascoltata.
La piccola bocca paffuta della bimba divenne un broncio, ma se ne tornò in cucina a farsi un altro panino.
Forse papà non meritava la super marmellata.
Lei di certo sì, però.

— Me ne sto andando via.
Borbottò stiracchiandosi Alberto, uscendo in balcone per dare un bacio sulle labbra a Diana, che lo scostò, costringendolo a limitarsi alla sua guancia.
Non restituì il bacio, non si giustificò, non ricambiò il saluto, non smise di fumare e non lo accompagnò alla porta.
Eppure, non sembrò un comportamento insolito da parte di Diana; dunque il ragazzo raccolse il suo giubbotto, il suo zaino, e se ne andò via senza grilli per la testa.

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