Capitolo 34

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DANTE

Il tempo parve frammentarsi tra passato e presente, dislocandomi in un tempo indefinito

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Il tempo parve frammentarsi tra passato e presente, dislocandomi in un tempo indefinito. Andai in pezzi per ricompormi di nuovo nell'istante successivo. L'impatto fu quasi fatale. Se avessi potuto scegliere, avrei preferito senza il quasi.

Ero a conoscenza di una verità assoluta – eccetto quelle delle tasse, e la morte: mia madre era... complicata. Disadatta a fare la mamma quanto potessi esserlo io a fare il padre, un giorno. Figlia del suo tempo, traumatizzata dalla dittatura militare di Pinochet, generale e politico cileno, fu costretta a lasciare tutto ciò che amava per salvarsi la vita. Papà la condusse nella propria terra d'origine, l'Italia, dove subii ingiustizie razziste, disagi burocratici – dieci anni per una stupida nazionalità – e la malinconia degli affetti. Nulla la consolò mai. Nemmeno noi. Fu questo, e molto altro, ad amplificare il bipolarismo di cui era affetta. Papà, Dristan, Deva, e io, eravamo gli unici su cui potesse contare. Bambini che si prendevano cura di una bambina. Mio padre aveva quindici anni quando divenne genitore per la prima volta. Lei, diciassette – diciotto e venti quando ebbero me. E adesso, la stessa diciassettenne, imprigionata nel corpo di una quarantacinquenne, mi fissava con occhi colmi di lacrime e nostalgia. Come se questo avrebbe potuto cambiare qualcosa. Accennai un sorriso derisorio, ma non ero affatto divertito.

Non la condannavo per essere un genitore incapace, perché era a conoscenza d'esserlo – il più delle volte. Ne disprezzavo l'ottusità: comprendere lo sbaglio, e non contenta, rifarlo a oltranza. Era vero, Pablo Neruda fu il nostro legame. Luis Sepúlveda, quello che ebbe con Dristan. Isabel Allende, con Deva. Scrittori di un altro tempo a narrare di un Cile diverso da quello attuale; la casa che mamma ricordava, imprimendoci una favola utopista su un Paese Inventato.

Non ero italiano, tantomeno cileno. Ero entrambi e non ero niente allo stesso tempo.

La mia infanzia, nebulosa e costellata di momenti persi nel passato, mi annebbiò la vista; ma furono stelle troppo opache per poterne ammirare la piena lucentezza. Immagini sbiadite per colpa – o per fortuna – dell'indifferenza altrui. I legami non erano mai stati inscindibili, dopotutto. Se non ce ne si prendeva cura, si recidevano con estrema facilità. Provato per crederci.

«¿Qué estás haciendo aquí?», le chiesi con apparente apatia.

Cosa stai facendo qui?

Non la volevo vicino a Edith. Non la volevo vicino a me. Non la volevo e basta.

«Hijto...», mi pregò in tono supplichevole. Aspettandosi che fossi ancora l'adolescente sensibile, in cerca della sua approvazione.

Figliolo.

Scossi il capo, stentando a reputarne la coerenza: «Adesso sono tuo figlio?», la schernii con ironia, «No, mamma. Non mi freghi più», affermai, deciso ad andarmene. Agguatai il polso sinistro della maestrina e indietreggiai all'auto, portandola via. Troppo assorto nelle reti mentali di quella donna per badare alle proteste piagnucolose di quest'ultima. Se c'era qualcosa che disprezzavo più di ogni altra cosa, era proprio il vittimismo.

***

Trovammo rifugio presso il limitare di un giardino comunale, vicino alla gelateria del quartiere. Aprile parve pieno di sorprese, col suo bel tempo, e le serate calde. La gente scorrazzava sul prato senza prestarci attenzione, godendosi la stagione primaverile. «Stai bene?», chiese con timidezza, fissandomi con due coni gelato in mano: uno alla fragola, l'altro alla stracciatella. Scossi il capo con lentezza, addossando goffamente la schiena contro la spalliera della panchina. «Ne vuoi parlare?», indugiò appena, chinandosi su di me.

Alzai appena il capo, trovandovi il suo ad attendermi: «No, non voglio parlare», mormorai con risolutezza; e prima che potesse reagire, la strattonai contro di me, obbligandola a sedersi sulle mie gambe e avvinghiarsi al mio collo con l'interno del gomito destro.

«Mi si squaglierà il gelato!», strillò divertita, ridendo per l'imbarazzo.

Afferrai il gusto rosato, il mio preferito, e le imbrattai la punta del naso: «Allora lecca, mi niña hermosa», sussurrai contro le sue labbra, accantonando il recente incontro con mia madre. Con Edith, mi sentivo sempre felice – anche s'ero irritato.

«Come fai a risultare erotico in un parco per famiglie, circondato da giostre per bambini, e cani scodinzolanti, me lo spieghi?», si lamentò lei, provocandomi una risata.

«Dote naturale, suppongo. Tu come fai ad apparire adorabile pur essendo tanto saccente?», ironizzai, sempre più divertito dalle smorfie che le suscitavo.

«Ehi! E-Era un complimento o un insulto?», domandò, interdetta dalle mie parole.

Scrollai le spalle, fingendo indifferenza: «Non lo so, dipende, ti senti lusingata oppure offesa?», inarcai un sopracciglio, attendendo una risposta.

«Sei diabolico!», sbottò con ilarità quando questa non avvenne, sporcandomi di stracciatella la guancia sinistra.

«E tu, perfida. Indossi una minigonna in un luogo per famiglie e io non posso intrufolarci le mani sotto», sottolineai, piccato. Un rivolo di gelato sciolto solcò le mie dita per infine impiastricciare la coscia semi scoperta della mia controparte.

«Hai ragione. L'ho fatto proprio per questo», mi schernì con finta innocenza, catturando con l'indice sinistro la lacrima cremosa e portandosela alla bocca. Era davvero... davvero perfida. Deglutii a vuoto nell'assistere. «Adesso sto molto meglio», le sfuggì in seguito.

Solo allora rammentai le lacrime.

*Angolino dell'Autrice*

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*Angolino dell'Autrice*

Attenta a quel che dici, Edith...

Prossimo capitolo in arrivo <3

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