Capitolo 41

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EDITH

EDITH

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Ops

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Ops...

Forse avevo esagerato, ma ogni remora divenne futile quando si accanì sulla mia bocca, mordendo e torturandone le carni tumide.

Agognarlo era insensato. Avrei dovuto mostrarmi ritrosa, mantenere le distanze, e lasciarlo morire di desiderio; ma la passione, quando era ricambiata, e feroce, non si poteva domare. Essa aveva zanne e artigli con cui ferire. Nessuno si salvava. L'avevo appreso a mie spese.

Il guizzo delle nostre lingue fu quasi immediato, cercato e bramato; come se avessero avuto una coscienza tutta loro. La nostra, era un'esplorazione sempre nuova, dipendente dal contatto e sensibile al tocco reciproco.

Inabissati l'uno nell'essenza dell'altra, insieme, non avevamo fine o confini. Eravamo luce infinita, astri di cielo calamitati l'uno contro l'altro, in continua attrazione, e non c'era alcuna resistenza che potesse perdurare.

Quando si scostò per riprendere l'ossigeno perso, mi concessi di odorarne la pelle nell'incavo del collo. Aggrappata al suo collo, sostenendomi in punta di piedi, ascoltavo i nostri respiri ansanti, uniti in un unico fiato spasmodico. Malgrado la vista negata, conoscevo a memoria ogni tratto somatico che lo distingueva dagli altri.

«Non... avresti dovuto», ansimai a fatica, combattuta sul da farsi. Bevevo aria come se fosse stata acqua fresca.

Lo sentii sorridere contro la tempia destra, risalendo il mio busto con le mani, fino ad accarezzarmi il petto libero dal reggiseno da sopra il tessuto della maglia. Rabbrividii di piacere mentre accostava la bocca al mio orecchio: «Non dovevo, dici? Allora occorre che mi riprenda quel bacio», mormorò con tono seducente.

Prima che potessi razionalizzare la frase, a metà di un respiro, congiunse le nostre labbra, mozzandomi il fiato. Annaspai, ricambiando infine con la stessa foga. La disperazione l'apprezzavo di gran lunga a qualsiasi dolcezza o carineria. Perché quando si era sull'orlo di un baratro, tutto acquistava più sapore.

Non ci fu gentilezza, né delicatezza, nelle nostre gesta. Fummo rudi, vogliosi, e possessivi. Tutto questo in un bacio dedicatoci in uno spazio angusto, ma tutto nostro. Fare l'amore era superficiale quando bastava una carezza a donare brividi e farfalle svolazzanti nello stomaco.

Incastrati nel bramarci all'unisono, percepimmo a malapena l'ascensore riprendere il suo corso, deludendo entrambi. Mi sfuggii un gemito colmo di sconforto. C'erano momenti nella vita che avrei voluto dilatare all'infinito... e altri che avrei preferito cessare in uno schiocco di dita. Con Dante mi trovavo sempre a sperare nell'eternità.

Quello che non avevo previsto, presa dal nostro bacio, fu avere degli spettatori. Le porte si aprirono con un tintinnio, rivelando un tortuoso corridoio immacolato. La luce artificiale rendeva il luogo candido e inamidato. I volti delle persone sconcertate un po' meno.

Dante e io ci freddammo. Il personale dell'hotel, con gli occhi strabuzzati dallo sgomento, fissava la mano dell'avvenente spogliarellista, ancora chiusa sul mio seno sinistro. L'altra, infossata dietro di me, era immaginabile conoscerne la meta: a strizzare il gluteo destro.

DANTE

Di tutte le sfortunate coincidenze, questa era di sicuro la peggiore.

Edith si allontanò da me, imbarazzata e a disagio, propinando scuse continue ai cinque addetti accorsi in nostro aiuto.

Era stato un grande aiuto, il loro.

Io non ero affatto dispiaciuto. Incurante delle occhiatacce altrui, sfoggiai un'espressione innocente: «Oh guarda, il numero della nostra stanza», indicai la porta in fondo a sinistra, contando i quattro numeri che la separavano dall'uscio del piano. Congiunsi la mancina alla mano destra della giovane maestrina e la trascinai via, ignorando il resto del personale.

Inserii la chiave nella toppa. Ero pronto a farla scattare per entrare – e pregustare un altro momento da solo con Edith – quando udii una voce maschile, dal tono alto e minaccioso, provenire dalla stanza difronte: «Sei una troia! Di chi era quel dannato messaggio sul tuo cellulare?! Deva, parla, e non raccontarmi balle. Chi cazzo è Stefano?!».

Mi bloccai. Non poteva essere.

Il silenzio che precedette la domanda fu agghiacciante. Rimasi congelato, a sperare che dietro quella porta non ci fosse mia sorella.

«Non sono affari tuoi, coglione!», udii la risposta. Serrai gli occhi.

Era lei.

Puta mierda.

Il suono di uno schiaffo fu l'ultimo che ascoltai prima di sfondare la porta chiusa a chiave con un calcio ben assestato.

Quello che vidi mi offuscò la vista dall'ira. Deva, in intimo provocante, che si massaggiava la guancia destra, e il ragazzo difronte a lei che le stava addosso, trascurando quello che doveva essere un set fotografico.

Ripagare i danni all'hotel non sarebbe stato un problema. L'accusa di lesioni aggravate, sì. In quel momento però, puntavo all'omicidio.

Stripper Love | Parte 2Where stories live. Discover now