Capitolo 14. Ryss

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Tutti fremono alla banda, seduti ai loro posti. Io invece vorrei solo andare a casa, sono troppo stanco per qualsiasi cosa oggi. A volte mi chiedo chi me l'abbia fatto fare, di venire alla dannata banda della scuola, ma poi mi ricordo che è stata una scelta volontaria. Una scelta kamikaze.

C'è il batterista accanto a me che ancora mi fissa, e credo che oggi sulla porta abbia fatto scivolare la mano apposta sul mio fianco, schivando il mio didietro solo perché Bodie mi ha tirato da una parte per lasciar passare la Johnson. Non mi piace questo batterista. Fortunatamente dall'altra parte, alla mia destra, ho Bodie, che sta aiutando la Johnson a montare il piedistallo per il microfono. Ha parlato ininterrottamente con me e con chiunque gli sia capitato a tiro da quando siamo usciti dalla mensa e non ha ancora finito. Forse è il suo modo di scaricare l'ansia, anche se non vedo perché dovrebbe averne: ha la voce più bella che abbia mai sentito, specialmente in questa banda dove non c'è nessuno in grado di cantare come lui, qual è il problema?

Adesso che sono riusciti a sistemare il microfono, la Johnson sembra accesa come una lampadina. «Bene, ragazzi, cominciamo!» cantilena e tutti si quietano, in attesa di sapere cosa dovranno suonare. Onestamente, non è che me ne importi molto, ma sono contento che il batterista - che ho sentito chiamare Justin da qualcuno - ora guardi lei e non me.

«Bodie, inizia tu, visto che sei lì» dice la Professoressa Johnson, con tanta nonchalance che sembra quasi fatto apposta.

Si voltano tutti a guardarlo, poi lei chiama un paio di nomi e chiede loro di suonare una canzone che non conosco. Io appoggio la chitarra, tanto so che anche oggi la userò pochissimo.

Bodie è in piedi al centro dell'aula, proprio davanti al microfono, e guarda quell'aggeggio grigio come se fosse uno di quei pali del Signore degli Anelli, su cui ficcavano le teste mozzate degli orchi. Mi lancia un rapido sguardo e io annuisco, ma non dev'essere un grande incoraggiamento perché non mi sembra rilassato.

La croce gli pende al collo e sembra quasi un impiccato appeso alla sua corda - molto blasfemo da dire, ma c'è anche da dire che quella è una croce, non un crocifisso. Eppure l'impiccato qui sembra Bodie. Ha i capelli tirati in su come al solito, un paio di ciocche che gli cadono sulla fronte sudata. Troppo sudata.

«Quando volete»

Cominciano a suonare senza aspettare che Bodie dica di essere pronto e lui continua a fissare il microfono. Non sembra più che abbia l'ansia, piuttosto sembra sul punto di avere un infarto. Il suo petto si alza e si abbassa ad una velocità esponenziale e quasi tutto il suo viso è ricoperto di sudore. Non ho mai visto nessuno con un'ansia di questo genere. Capisco che non è ansia quando tutto il suo corpo comincia a tremare, come se fosse in preda alle convulsioni, e si porta una mano al petto.

La Johnson scatta sull'attenti, come se non fosse la prima volta che lo vede succedere, e con un tono estremamente serio dice:«È un attacco di panico. Portatelo fuori»

Mi alzo e raggiungo Bodie, che sicuramente ha un attacco di cuore, non di panico. Spero tanto che la Johnson non li abbia confusi.

Gli prendo la spalla e lo seguo mentre da solo si dirige verso la porta. «Bodie» mi chiudo dietro la porta, per evitare che vengano tutti a vedere, e lui è già collassato sul pavimento, la schiena contro gli armadietti e la testa tra le ginocchia. Sento il suo respiro pesante e veloce fin da qui, vedo ancora la sua mano stretta alla maglietta proprio sopra al cuore.

«Bodie» ripeto, richiamando la sua attenzione. Non ho idea di cosa fare. Penso a qualsiasi cosa possa essere utile, ma non mi viene in mente nulla, non ho mai gestito un attacco di panico. Non saprei neanche come fare. Però ricordo di aver letto da qualche parte una tecnica che forse può funzionare, anche se non riesco a ricordarmela esattamente. Dio, fa che funzioni e che questo non sia un infarto.

Gli alzo la testa con le mani e lo fisso negli occhi. È terrorizzato, come se fosse stato messo all'angolo da un assassino.

«Va tutto bene, guardami» ordino e lui non distoglie lo sguardo, il che è già qualcosa.

«Non riesco a respirare» sussurra tutt'ad un fiato e sembra davvero che stia soffocando. E se stesse morendo sul serio e la Johnson si sbagliasse? Oddio, non voglio perderlo.

Tiro un lungo respiro e mi impongo di stare calmo, altrimenti non ne usciremo mai.

«Sì che ci riesci» mi sforzo di dirlo con una convinzione che non in realtà non ho. «Ora guarda me e fai quello che ti dico, okay?»

Annuisce e io riesco solo a pensare a che cazzata sia darmi retta, perché mi sto addentrando in un terreno sconosciuto.

«Respira a fondo, okay?» mi sistemo in ginocchio di fronte a lui e continuo a tenergli ferma la testa con le mani. «E ora dimmi per nome cinque cose che vedi»

Mi guarda strabuzzando gli occhi, stupito, ma io annuisco per rafforzare la mia richiesta, anche se non ho idea se sia giusta o meno.

«L'armadietto di Daisy,» risponde e poi prende un respiro. «Il pavimento. Il neon. La porta... E... Le tue scarpe»

«Bene. Continua a respirare»cerco di ricordare esattamente cosa ho letto, ma alla fine spero solo che sia così. «Quattro cose che puoi toccare»

«Il pavimento,» risponde. Sembra che funzioni. Mentre pensa, il suo respiro comincia a rallentare. «Il legno della porta. I vestiti» esita, e io porto delicatamente la mano sopra alla sua, sul suo petto.

«Ancora uno»

«Il ferro dell'armadietto»

«Bravo, bravissimo» faccio scivolare la mano sotto la sua, tra il suo palmo e la stoffa della camicia. Il cuore gli batte ancora troppo forte, come se avesse corso per ore.

«Tre cose che senti» gli sorrido mentre lui mi prende la mano libera, reggendocisi come se non avesse nessun altro appiglio e fosse completamente alla deriva.

«Ehh...» fa scattare gli occhi da una parte all'altra. «Dei passi. La tua voce. E...»

«Avanti» non so dove li senta i passi, ma va bene lo stesso. Siamo in una scuola, qualcuno che cammina c'è sicuramente.

«La voce della Johnson»

«Bene»

Andiamo avanti per un po', la mia mano premuta sul suo cuore finché il battito non torna normale. Mi siedo di fianco a lui sul pavimento freddo, tirando il fiato come se quello con l'attacco di panico fossi stato io. È freddino in corridoio, in confronto all'aria sudaticcia e calda della classe. Me ne accorgo solo ora.

Bodie mi appoggia la testa sulla spalla, il che mi fa calare addosso una strana sensazione, ma non mi mette a disagio. Anzi, sto lentamente cominciando a capire quello che mi infuria nella testa.

«Grazie, Ryss» borbotta, le mani unite strette tra le ginocchia e un unico rivolo di sudore che gli cola lungo il viso.

So perché non ho ascoltato Steven, anche se di norma faccio tutto quello che mi dice; ho capito adesso perché ho preferito difendere Bodie che ascoltare il mio migliore amico. Perché credo che la sensazione che ho con Bodie non la scambierei con nient'altro al mondo. Non è quella scarica che mi permeava la pelle mentre aspettavo Steven, né il forzato divertimento dei nostri pomeriggi insieme. No, è una cosa diversa, è un'insieme di tante cose diverse, divertimento spensierato, serietà, connessione, in un certo senso. È come se io e Bodie, nonostante nostra diversità, vivessimo sulla stessa lunghezza d'onda.

Dio, non portarmi via Bodie Watkins. Non voglio perderlo, voglio che rimanga mio amico per sempre.

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