Capitolo 16. Bodie

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Sono le dieci e mezza quando arrivo a casa, che è un po' tardi, ma credo che oggi nessuno mi rimprovererà. La Professoressa Johnson ha già telefonato ai miei, ovviamente, per dire loro quello che è successo. Probabilmente questo è l'unico motivo per cui mi hanno lasciato stare da Ryss senza fare troppe storie.

Quando apro la porta e scivolo nel tepore di casa, mia madre sbuca subito nel corridoio. Ha un'aria preoccupata e i capelli sono sistemati in una treccia strettissima. Mi sento improvvisamente in colpa: come ho potuto lasciarla qui a preoccuparsi e andare a casa di Ryss? Quando scorgo anche mio padre con il suo sguardo interrogativo, mi do una risposta: che preferivo essere lì piuttosto che qui.

«Hey, tesoro» mia madre mi viene incontro e mi abbraccia; io cerco di ricambiare ma detesto il dispiacere nel suo tono di voce. È come se si assumesse la responsabilità di ciò che è successo - e non è la prima volta che succede - ma io so benissimo che per mio padre è colpa mia, sono io che li ho delusi, di nuovo.

«Stai bene?» chiede, prendendomi il viso tra le mani.

Annuisco. «Scusa se sono rimasto da Ryss, avevo bisogno di compagnia»

«Non c'è problema» mi accarezza una guancia. «Se questo tuo amico ti è di aiuto, sono contenta che abbiate passato un bel pomeriggio insieme»

Mi sfilo dal suo abbraccio per andare di sopra, con la scusa che sono stanco - che non è del tutto una scusa, perché sono esausto e appesantito dalla pizza e dai biscotti - , e passo accanto a mio padre.

«Tutto bene, Bodie?» mi chiede con freddezza e so che questo è il massimo di calore che riesce a darmi in questo periodo.

«Sì» rispondo. «Buonanotte»

Faccio una sosta in bagno, ma sono troppo stanco per farmi la doccia; così mi lavo il necessario e poi i denti, mi infilo il pigiama e vado in camera mia. Quando vedo i due pupazzetti appoggiati nell'angolo, mi scappa da ridere. Anche Ryss ogni tanto ci dorme. È una cosa da ragazze, dice mio padre, ma a me piace farlo. Ryss mi ha detto che lui lo fa perché per il resto del tempo, quando non lo usa, il suo pupazzo se ne sta lì su una mensola, e lui si sente allo stesso modo. Solo, ignorato e dimenticato. Dio, quanto lo capisco.

Esistono due lati di me. O sono come una macchia sul muro, una grossa macchia di un brutto colore che rovina la perfetta carta da parati; tutti mi guardano, tutti mi giudicano, tutto è sbagliato. Oppure sono come uno di quei pupazzi, dimenticato, in completo mimetismo con la parete, totalmente invisibile.

Il libro di mia madre, Gentle and lowly, the heart of Christ for Sinners and Sufferers, è ancora sul mio comodino, un promemoria di un'altra cosa che i miei genitori vorrebbero che facessi e che invece io non faccio: leggere quel dannato libro.

Prendo fuori le quattro foto di Ryss che ho fatto stasera. Le prime due sono quelle col suo pupazzo in mano, le altre le ho fatte mentre mangiavamo e ho inquadrato entrambi. Sono venute un po' storte, perché ho dovuto girare la macchina, ma sono belle comunque. In una Ryss è venuto sfuocato, nell'altra io sembro un cretino.

Con un pezzo di scotch, le attacco entrambe sull'armadio, vicino a qualche altra che ho scattato nelle ultime settimane. Ci stanno bene.

Spengo a luce e mi infilo a letto, il vento freddo fuori dalla finestra e il peso confortevole delle coperte sopra di me. Mi piace stare a letto, specialmente la sera, ad ascoltare il vento e i rumori del piano di sotto, il suono flebile della tv, i passi di qualcuno, le voci di Elias o di Delilah, i commenti fulminei di mio padre. Non riesco quasi mai a capire cosa stanno dicendo, ma sapere che sono tutti svegli al piano di sotto mi da sicurezza. È stato sempre così, fin da quando ero piccolo.

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