34. In pace?

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La stanza che Thomas gli aveva indicato era illuminata solo dalla luce del corridoio. Rallentò il passo solo sulla soglia della porta, indeciso se bussare per palesare la sua presenza o meno, ma poi entrò direttamente. La camera era spaziosa, non c'era granché, solo delle coperte su una scrivania, dei vestiti, quello che doveva essere lo zaino di Luca ai piedi del letto e poi quello che doveva essere lo stesso Luca, sopra il letto: un bozzolo di lenzuolo e coperte da cui non arrivava nessun suono. Ma almeno respirava, lì sotto? Si avvicinò cercando di non fare rumore, poi si sedette sul bordo del letto e solo allora la testa di Luca sbucò da sotto il cuscino, con un debole verso di protesta.

«Ehi» gli disse piano Elia.

«Sei qui?»

«Sono qui. Mi ha detto Rebecca dove trovarti.» Appena Luca tirò fuori dal suo bozzolo anche il resto della parte superiore del suo corpo, Elia gli prese una mano tra le sue.

Luca guardò il punto in cui erano entrati in contatto, poi alzò lo sguardo su di lui, incerto: «Sei arrabbiato?»

«Perché dovrei essere arrabbiato?»

«Perché sono qui da Tommy.»

«Ci sono cose più importanti a cui pensare adesso, mi pare.» Gli fece cenno di spostarsi un po', si levò la giacca, buttandola sulla scrivania, le scarpe, lasciandole cadere a terra, e si infilò sotto la coperta con lui. Finalmente, da quando tutto quel casino era iniziato, poté prenderlo tra le braccia e dargli tutto il suo sostegno. Luca si strinse a lui come un disperato e non disse nulla per un po'. Lo lasciò piangere, mentre gli accarezzava la schiena e i capelli e di tanto in tanto riusciva anche ad allontanarsi abbastanza da dargli qualche bacio sulla guancia e la fronte.

«Ho fatto un casino» mormorò a un certo punto Luca contro il suo collo.

Elia si scostò appena, per guardarlo in faccia, ma era troppo buio. «Ti va se accendiamo la luce?»

«Dobbiamo proprio?» implorò Luca e lui non riuscì ad imporsi. Se preferiva stare al buio, andava bene così.

«Allora, che è successo?»

«Ho mandato tutto a puttane, ecco cos'è successo. Mia madre ha chiamato uno per cena, non so chi fosse, se un prete del suo giro, un sedicente psicologo o un ciarlatano qualsiasi, comunque niente di buono. E io ho avuto paura, non potevo aspettare il diploma per andarmene. Ho chiamato Rebecca per chiederle di venire a prendere me e un po' della mia roba, ma ero nel panico, non sono riuscito a raccogliere quasi niente. Poi è arrivato mio padre e non mi ha fatto portare via nemmeno le due scatole che erano già pronte. Ha detto che era tutta roba comprata con i loro soldi e che decidendo di non fare più parte della famiglia avrei dovuto lasciare tutto lì. Ma c'erano anche dei regali, lì dentro, sai? Ci tenevo.»

«Che bastardo!» gli sfuggì, di getto, per poi correggersi: «Scusa, non dovrei, comunque è sempre tuo padre.»

«No, hai ragione. Mi ha detto delle cose orribili. Ho pensato che forse anche il padre di Gabri deve avergli detto delle cose simili, perché è riuscito a farmi venire voglia di sparire, rimpiangere l'essere nato, vergognare di essere così. Di stare al mondo.»

«No.» Gli prese il viso tra le mani e cercò il suo sguardo, anche se era difficile, con così poca luce. «Non dirlo nemmeno per scherzo, cazzo! È lui che si deve vergognare del tipo di essere umano che si ritrova ad essere, non tu.»

Luca lo strinse di nuovo in un abbraccio silenzioso ed Elia decise di chiederglielo: «Perché non hai chiamato me?»

«Non lo so, ci ho pensato, ma io e Rebecca ne avevamo già parlato, ho pensato che con lei avremmo potuto fare una cosa più pulita, avremmo dato meno nell'occhio se ci avessero beccati a portare fuori le mie cose, ma è andato lo stesso tutto da schifo.»

E tu chi sei?Where stories live. Discover now