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Rylie.

Dopo una settimana estenuante, finalmente avevo lasciato l'ospedale e mi sentivo rinata. Seduta in macchina con Richard, stavamo attraversando la città, mentre il sollievo per la fine di quella orribile situazione, - anche se ero cosciente che sarebbe durato poco - si diffondeva dentro di me, e la strada di casa si faceva sempre più vicina.

Devon non era stato d'accordo sul fatto che tornassi a vivere lì e per un attimo neanche io, ma mio padre voleva tenermi sotto controllo per il momento, per accertarsi che stessi bene. In ogni caso, sapevo che avrei trascorso la maggior parte del tempo a casa sua, e avrei passato le notti a dormire più nel suo letto che nel mio. Avevamo bisogno di ricominciare, e non avevo intenzione di lasciarmi sfuggire nemmeno un attimo della nostra vita insieme.

Ero stanca dei casini, ero stanca di essere arrabbiata, ed ero stanca di stare lontana da lui.

«Lei è a casa?» Parlai, dopo un estenuante silenzio, fissando fuori dal finestrino il traffico immenso in cui eravamo rimasti imbottigliati.

Sentì la tensione tendersi nell'aria come una corda di violino, quasi pronta a soffocarci. Non avevamo ancora affrontato l'argomento, né discusso di nulla, a parte quella discussione al mio risveglio.

Stavamo evitando il problema come se non esistesse.

«Non lo so, dovrebbe arrivare oggi dalla Francia.» Mi informò. «Non le ho ancora parlato, ho evitato di rispondere alle sue chiamate perché non sarei stato in grado di trattenermi, non sono argomenti da risolvere al telefono.»

Mi voltai ad osservarlo, le sue dita erano serrate sullo sterzo, tanto da sbiancare le nocche. Richard era una persona calma e pacata, ma quando si arrabbiava poteva distruggere chiunque con un solo sguardo ed una sola parola. Proprio come aveva fatto con Christofer, il padre di Dylan, quel giorno che si era presentato a casa nostra.

«Non so se riuscirò a stare nella stessa casa con lei.» Ammisi.

Mi ero posta l'obiettivo di essere totalmente aperta con lui, di condividere senza riserve anche le sfaccettature del mio stato mentale. Non volevo più trattenere nulla, desideravo che conoscesse veramente ogni parte di me. Eravamo stati una vita lontani, ed era arrivato il momento di costruire un vero rapporto.

«Non preoccuparti, Katrin se ne andrà.»

Sbarrai leggermente le palpebre, presa alla sprovvista.

«Vuoi lasciarla?» La voce faticò ad uscirmi.

«È il minimo dopo quello che ha fatto.»

«E Yole? E Dylan?» Loro furono il mio primo pensiero.

«Per Yole chiederò l'affidamento.» Mi spiegò. «Dylan é abbastanza grande da decidere da solo, non lo manderò via di casa, ma non lo pregherò nemmeno di restare. Non è mio figlio, non ho alcun diritto su di lui.»

Sentì il cuore sprofondarmi nello stomaco.

«Sei arrabbiato con lui?» Lo fissai, i lineamenti del suo viso si irrigidirono.

Amava Dylan come se fosse suo figlio, gli aveva sempre dato tanto, e stava faticando a sputare quelle parole rigide, che non gli appartenevano. Glielo leggevo nelle sguardo quanto avrebbe sofferto se lui se ne fosse andato via da quella casa.

«Mi era sembrato di capire che anche tu lo fossi.»

«Come potrei non esserlo, mi fidavo di lui. E poi, tra di noi è una questione diversa, ci sono cose che non riuscirei a spiegarti.» La voce mi tremò, e lui mi lanciò un'occhiata di comprensione, senza fare domande, per fortuna. «Ma non voglio che lui soffra papà, ha già sofferto abbastanza. Tu devi aiutarlo, sei l'unico che può farlo.»

Fino ai tuoi occhi - Secondo volumeDove le storie prendono vita. Scoprilo ora