5

15 3 3
                                    

Tokyo, Repubblica Giapponese, 21 dicembre 2089

Le undici di sera.
Le due, ora della Rete.
La sala del Consiglio di Amministrazione della J.ET.RO era l'unica illuminata, fiocamente, nell'intero palazzo dell'azienda.
Molti di loro non erano altro che anonimi funzionari dalla vita di carta, passata davanti a un monitor, mentre altri avevano famiglia. Non numerosa, ma famiglia.
Una moglie.
I più fortunati un figlio.
Il controllo delle nascite era diventato ancora più duro, dopo il 2030. Neppure i milioni di morti dello tsunami del 2038, incredibilmente più devastante di quello del 2011, avevano convinto il governo a recedere da quella decisione. Lo spazio era poco, la gente troppa.
Anche nel paese più ricco una larga fetta di popolazione sopravviveva appena.

Facce di un biancore livido nelle luci al neon dal ronzio sommesso. Silenzio.
Non una giacca, non una cravatta.
Più di quaranta persone erano sedute allo spazioso tavolo da conferenze. La maggior parte di loro indossava kimono tradizionali, bianchi. Tutti guardavano assorti davanti a loro il lucido piano nero di plastica levigata. Nessuno osservò, nemmeno per un attimo, i piccoli schermi a scomparsa incastonati nel mobile.
Spenti.

Solo una delle estremità del tavolo era occupata.
Vi sedeva un uomo anziano, accartocciato dal semplice peso dei suoi anni, con l'aspetto fragile di un ciliegio passato attraverso innumerevoli tempeste.
Si alzò in piedi.
La sua voce frusciò come pergamena stropicciata.
«Ora è per voi il tempo della purificazione.»
Tutti gli altri si alzarono e spostarono il pesante tavolo sul fondo della stanza, operazione che richiese non pochi sforzi vista l'età avanzata dei convenuti.
Quindi ottanta ginocchia si piegarono e quaranta schiene erette, rivestite di stoffe dal significato antico, attesero nuove parole.
«Il nostro onore ne sarà accresciuto. Conoscete la necessità, comprendete la sua giustizia. Voi che siete come miei figli, mi seguirete nel viaggio che abbiamo deciso, ed io sarò con voi per aprirvi la strada, primo ad andarsene. Rivolgiamo agli dèi le nostre preghiere, che ci accompagnino.»
Quaranta teste si chinarono cautamente verso terra, le fronti toccarono il pavimento gelido. Molti stringevano rosari buddisti. Un mormorio riempì la sala.
Voci diverse, diversi canti.
L'aria si mosse, si gonfiò, sembrò lacrimare e innalzarsi, portare a un cielo muto le preghiere di una terra dai solchi troppo profondi.
Uno degli anziani si alzò per aprire un armadio a muro in cui era custodito uno scrigno lucido dall'aria antica.
Da esso trasse lentamente, una dopo l'altra, delle lame argentee e intarsiate. Ne posò una davanti a ognuno degli inginocchiati, in silenzio.
Terminata l'operazione, le litanie si sciolsero una a una in un silenzio mozzo.
Molti avevano le lacrime agli occhi.
«Con questo, figli miei, la nostra vita termina e il nostro viaggio si conclude. Siate fieri di ciò che avete compiuto, siate ancora più orgogliosi di ciò che state per compiere. Come io lo sono, insieme a voi.»
Cominciò un altro mormorio fatto di saluti, occhi umidi e singhiozzi sopiti dalla determinazione.
Kentaro Oda, l'uomo che aveva occupato il capotavola, talmente vecchio da sembrare un tronco secco, passò lo sguardo di viso in viso mentre tutti loro, che amava come veri figli, si puntavano la katana al ventre con mani salde. Lo fece anche lui.
Sentiva di amarli più che mai. Stavano facendo la cosa giusta, se ne stavano andando nel modo giusto. Kato, suo amico e collega da sempre, era inginocchiato accanto a suo figlio. Un figlio di quasi cento anni. Sì, era proprio giunto il momento.
Affondò.

Non vennero grida, dalle finestre illuminate del palazzo.
Se anche fosse stato, il barbone lì sotto non le avrebbe sentite perché erano troppo in alto. Anche lui sapeva.
Era tutta la sera che accarezzava con le mani rattrappite due card da cento yen.
Pensava e ripensava.
La sua era stata una vita di follia, di povertà, di case di cartone in riva a condotti fognari a cielo aperto nella tanto democratica Repubblica Giapponese, ex impero, terza inutile svolta a sinistra e poi in fondo al mondo, tante grazie.
Aveva cominciato a dare di matto verso i trent'anni, quando i suoi genitori erano morti per caso in quel mondo dove anche le più elementari cure mediche garantivano una vita così lunga che, due generazioni prima, era rarissima. Non aveva smesso di andare nella Rete, ogni volta che gli capitava. Spesso spendeva un po' delle card che raccoglieva con le elemosine per qualche locale dove potesse collegarsi.
Le ultime cose che gli era capitato di leggere dicevano che i nati nel 2089 avevano un'aspettativa di vita di quasi centosettant'anni. Tanto.
Lui stesso, che ne aveva ottantadue, tremava a pensarci.
Tutti quei bambini... lui amava i bambini. Voleva vederne un mucchio. Sapeva che c'erano tante persone nel mondo, ma non c'erano tanti bambini. E lui aveva duecento yen.
Poteva mangiare, se voleva, almeno un poco.
Sì, poteva mangiare una cosa calda. Sentiva tanto freddo. Sakè, non quello sintetico, quello vero, bollente... era buono, così buono, e faceva dormire senza pensare.
I suoi passi si fecero esitanti per un momento, dovette appoggiarsi alla parete che stava costeggiando. Si mise una mano sulla fronte e si disse che era strano scottare proprio quando aveva così tanto freddo. Gli venne da ridere, un gorgoglio folle che rotolò giù in un rivolo di saliva per la sua barba sporca.
Sakè.
Si sentì scivolare. Sakè, sakè. Duecento. Duecento pezzi. Sakè, forse addirittura un okonomiyaki.
Lui aveva dei bambini? Li aveva avuti? Non se lo ricordava... forse, ma forse no, perché era sempre stato povero e di questo era sicuro, e se sei povero nessuna vuole fare un figlio con te e non puoi dare da mangiare a un figlio quando ce n'è così poco anche per te ma forse è più giusto lasciarlo a loro, sì sì, è più giusto, lo sa e lo sente, ma giusto cosa? E per chi, poi? Ma cosa conta, voglio sakè, tanto sakè da annegarci dentro l'intero mondo, tanto sakè da ubriacarci Dio e rubargli la vita eterna, da dare a sé e al mondo bastardo che i bambini possono farci qualcosa, ma solo i bambini, ma solo loro, e si ricordava parole che aveva letto e scritto, e quanto era stato d'accordo su cosa dovesse fare per regalarsi il sogno di una vita donata per lasciare spazio...
Continuò a scivolare finché finì disteso e si accasciò sul marciapiede freddo, sempre più freddo, sentendo freddo, sakè...
E poi continuò a scivolare, fino a fermarsi.

Urla.
Ovunque.
Si levarono.
Una dietro l'altra.
A macchia d'olio.
Sempre di più.
Di più.

L'ultimo dono possibileWhere stories live. Discover now