Perché continuavo ad amarlo?

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Laura, sabato 6 ottobre 1990

Quando tornai nel mio appartamento, dopo aver lasciato Paolo in piazza, scoppiai a piangere. Mi sentivo distrutta. Non avrei mai voluto trattarlo così male. La stanza, che mi aveva sempre accolto e rassicurato, ora mi sembrava fredda e distante. Le pareti, un tempo dipinte di colori caldi, ora mi soffocavano con la loro presenza muta.

Il letto, disfatto e in disordine, era il testimone silenzioso delle mie notti insonni, passate a combattere con attacchi di panico e con la mia stessa anima. La luce che entrava dalla finestra era debole, e le ombre che si proiettavano sul pavimento sembravano danzare, quasi a deridere il mio dolore.

Mi lasciai cadere sulla sedia davanti alla scrivania, dove i libri e gli appunti sparsi raccontavano di una vita che non riuscivo più a riconoscere come mia. Il mio sguardo si posò su un vaso di fiori appassiti, e mi resi conto di quanto fossero simili a me in quel momento: un tempo pieni di vita, ora lentamente sfioriti. 

Gli avevo detto, con la crudeltà di chi colpisce per ferire, che il mio cuore apparteneva a Marco. Una menzogna inventata di getto, una finzione escogitata per colpire nel profondo, per scorgere nei suoi occhi il riflesso del dolore che io stessa provavo. Volevo vederlo soffrire, come io soffrivo per la sua lontananza, uno stato alla quale ormai ero abituata.

Un grido di vendetta, un urlo silenzioso che lacerava la mia anima. Desideravo vederlo piegato dal dolore, così come io mi sentivo schiacciata dal peso del mio stesso amore. Ma mentre pronunciavo quelle parole, mentre osservavo il suo sguardo smarrito e ferito, un brivido di gelo mi percorse la schiena. La sua sofferenza era reale, tangibile, e improvvisamente mi resi conto di aver oltrepassato il limite, di aver scavalcato la linea sottile che separa il dolore dalla crudeltà gratuita. Ora, mentre le lacrime scendevano sul mio viso, mi rendevo conto che avevo forse perso Paolo per sempre e la vendetta mi aveva lasciata vuota...

... e più sola di prima.

Mi chiedevo se avessi potuto essere più forte, resistere all'impulso di ferirlo. La mia anima era in conflitto: l'istinto vendicativo che mi aveva guidato ora si scontrava con il desiderio di correre da lui, di confessare tutto, di chiedere perdono. Ma avevo paura, paura che fosse troppo tardi, che il mio orgoglio avesse eretto un muro troppo alto tra noi.

Ero distrutta, annientata. Non solo dal dolore della mia vendetta fallita, ma dalla terribile consapevolezza di aver inflitto la pena più grande a me stessa. Le lacrime scorrevano copiose sulle mie guance, macchiando il mio viso di un dolore che non riuscivo più a contenere.

Il mio cuore bruciava di passione e di dolore. Un fuoco ardente che consumava le mie viscere, alimentato dal rimpianto e dalla disperazione. Come un sole al tramonto, combatte tra l'arrendersi alla notte del dolore e la tenace volontà di lottare per un ultimo raggio di luce, per un barlume di speranza.


Quando l'avevo rivisto in quel bar, fui di nuovo travolta da quel qualcosa di unico che era in lui: era evidente nel gesto delle sue mani, nel suo sorriso e nel modo in cui le parole fluivano da lui, ricche di bellezza

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Quando l'avevo rivisto in quel bar, fui di nuovo travolta da quel qualcosa di unico che era in lui: era evidente nel gesto delle sue mani, nel suo sorriso e nel modo in cui le parole fluivano da lui, ricche di bellezza. Ma quando i nostri sguardi si incrociarono e i suoi occhi mi colpirono dritto al cuore, capii che dovevo allontanarmi. La vita mi aveva già fatto pagare un prezzo troppo alto. Venivo da notti insonni, tormentate da attacchi di panico che mi impedivano di vivere come avrei voluto. Ero uscita da una grande lotta, quella con me stessa e il mio bisogno insaziabile di isolamento. Vedendolo, compresi che era il momento di prendere un'altra strada, di proteggermi da lui. Una persona così profondamente innamorata della vita e del mondo che lo circondava non poteva che nascondere qualcosa di insolito.

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