1. La stazione

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Novembre 1930.

Il rumore dei treni mi tranquillizza, forse perché mi ritrovo in questo posto ogni giorno, da vent'anni. Vedo tante persone passare, chi si saluta, chi piange e chi ride perché forse non ci si vede da tanto. È mia abitudine osservare la gente, cerco di indovinare i luoghi da cui vengono, i posti che hanno visto e le persone che hanno incontrato. Trovo poi interessante il modo bizzarro con cui i passeggeri salgono o scendono dai treni, assumono delle espressioni tali da incuriosirmi. C'è chi si trova in uno stato di confusione, aggrotta la fronte al punto da creare innumerevoli e profonde rughe sul volto. Poi ci sono quelli tristi di essere arrivati, quelli felici che sorridono troppo per essere realmente felici. Quel giorno però un bambino catturò la mia attenzione, non perché non avevo mai visto dei bambini, ma perché non avevo mai visto un bambino da solo in una stazione così grande. I treni partono da qui per giungere in luoghi molto lontani e, viceversa, da luoghi troppo lontani arrivano qui. Lui aveva la faccia di chi si perde e non sa dove andare o, forse, sapeva di essere lontano da casa e per questo era spaventato. Decisi così di lasciare la mia postazione, cosa che raramente faccio. Mi diressi verso il bambino, sgomitando fra la folla di viaggiatori che si affrettavano a raggiungere i familiari o a prendere il treno. Cercavo di sovrastare con lo sguardo le centinaia di teste che coprivano quel piccolo bambino, finché lo raggiunsi.
"Ciao, hai bisogno di aiuto?" gli dissi e lui alzò lo sguardo. Da lontano non mi ero ancora reso conto di quanto davvero fosse piccolo.
"Che stazione è questa?" i suoi occhi erano troppo grandi, tanto da rendere il resto del viso piccolo e quasi sproporzionato.
"Sei a Parigi, da dove vieni?"
"Parigi? Sapevo di non dovermi fidare di quella donna" strinse i pugni lungo i fianchi, con fare arrabbiato.
"Quanti anni hai?" ero così incuriosito da gli occhi di quello sconosciuto. Erano grandi e riuscivano a farmi vedere un mondo che non avevo mai visto, a colori, diverso dal mio, eppure stava lì bastava solo alzare lo sguardo dai miei piedi e osservare quel bambino. Alla mia età hai già visto molte cose, hai incontrato tante persone, per caso e anche di proposito. Spesso non si è aperti alle novità, a qualcosa di diverso, qualcuno che si distacca dalla tua quotidianità ed è per questo che ci fossilizziamo nella nostra eterna malinconia, nei ricordi di una vita che fu.
"Dodici e tu sei abbastanza vecchio da dirmi come posso arrivare a Londra" disse muovendo le ginocchia e spostando i piedi, o meglio, i suoi piccoli scarponcini neri.
"Di qui non parte nessun treno per Londra" portava con sé una carpetta a tracolla, e la stringeva con la piccola mano destra, come uno scrigno, qualcosa a cui teneva, che avrebbe difeso in ogni modo.  Comunque una domanda continuava a sovrastare i miei pensieri vissuti. Cosa ci faceva un bambino di dodici anni nella più grande stazione di Parigi e, soprattutto, perché doveva andare a Londra? Non mi rimaneva che chiedere.
"Cosa ti porta fino a Londra?"
"Perché fai tante domande? Sei uno sconosciuto e non dovrei parlare con gli sconosciuti" era vero, ero stato troppo invadente e permaloso, ma volevo aiutarlo.
"Mi chiamo William Harper e questo mi rende meno sconosciuto. Ho cinquantasei anni e lavoro qui come bigliettaio, da circa vent'anni. Questo posto è la mia casa, piccolo, ed è per questo che mi interesso di chi va e chi viene". Lui mi guardava incuriosito e teneva la bocca semiaperta, forse era impaurito o forse no. Mi sembrava un bambino scaltro, troppo grande e troppo basso per la sua età.
"Sono Michael Tomson, devo arrivare a Londra perché voglio raggiungere mia madre. Vengo dall'Italia ed è proprio in una delle tante stazioni che ho incontrato una donna e adesso sono qui" rispose lui.
Vi racconterò la mia storia che si è per caso incrociata con quella di Michael, il bambino che mi ha insegnato ad odiare le persone, solo dopo averle conosciute.

L'eredità di ClaudetteWhere stories live. Discover now