6. Parigi

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Il mio lavoro, quello da bigliettaio nella più grande stazione di Parigi, non occupava molto del mio tempo. Per questo motivo, potevo facilmente dedicare parte della mia attenzione al piccolo Michael, il quale stava seduto su una piccola sedia in legno con le gambe incrociate e, di tanto in tanto, canticchiava qualche canzone.
"Chi te le ha insegnate?" gli chiesi, fra una nota e l'altra.
"Catherine" rispose con veemenza. Tutto ciò che Michael diceva, per lui, era certo. Credeva forse che io sapessi tutto della sua vita.
"Chi è Catherine?" domandai. Lui mi guardò perplesso, si rese conto della poca conoscenza che possedevo.
"La governante" fece spallucce. Evidentemente i Tomson dovevano essere molto ricchi. I tessitori, così si chiamavano, in Francia venivano considerati dei nobili signori. Il mio pensiero mi portò al ricordo di una donna, anziana, la quale con grande maestria cucì un vestito maestoso che avvolgeva l'incantevole pelle di mia moglie, Claudette. Era blu e con eleganza la mia sposa lo sfoggiava fra la gente, nobile e povera, fra i bambini, le suore e le dolci mogli. Parigi la amava, la vedeva danzare nelle onde del suo vestito blu, come una sirena fra le onde del mare. La città abbracciava Claudette con le strade, gli alberi la facevano gioire e gli odori le sollevavano gli spigoli delle labbra carnose. Lei amava Parigi. Quando arrivammo in Francia, mi presentò alla nobile città, come fosse una duchessa, scherzosamente mi invitò ad inchinarmi e, assecondandola, seguii il gesto che fece con un braccio. Tutto ciò che era Parigi era anche Claudette. Conosceva i segreti di ogni casa, le vie nascoste che ingannavano i visitatori e la città si mostrava solo ai suoi occhi. Era solita poi parlare alla luna, alle stelle e gli astri. Raccontava il nostro amore agli animali e, qualora avesse un senso di malinconia, trovava conforto tra i colori dei fiori. Tutto ciò che mi affascinava della mia donna, alla sua morte, lo trovai in questa città. Vedevo Claudette negli alberi, che ogni mattina danzavano al vento, come lei faceva fra le stanze della nostra casa. La sua voce risuonava nel canto degli uccellini, che al mattino si posavano sul bordo delle finestre. Vedevo mia moglie, con le sue sinuose curve e la sua morbida pelle, fra il mare ed il vento, curvilineo ed invisibile, come ormai era il suo corpo. Il mio volto si irrigidì, seguendo i miei pensieri, si deformò assumendo un'espressione triste e, forse, anche arrabbiata a tal punto da attirare l'attenzione del mio piccolo amico.
"A cosa pensi, William?" mi osservò. Balzò in piedi e posò la sua cartelletta sulla sedia di legno.
"Ti piace Parigi?" chiesi, evitando la sua domanda.
"Sì" sorrise "pensavi a questo?" domandò.
"Sì, anche ad altre cose". Michael era curioso, voleva conoscere tutto ciò che ai suoi occhi appariva ignoto e misterioso, per questo motivo sapeva leggere e, soprattutto, cercava il suo vero padre.
"Posso aiutarti?" mi chiese, indicando i biglietti sparsi sul bancone. Il suo gesto e la sua gentilezza mi sorpresero e, dal momento che il bambino con il cappello verde riusciva a stupirmi ogni giorno, accettai la sua proposta. Invertimmo i nostri ruoli, presi posto sulla sedia di legno e, cercando di imitare Michael, incrociai i piedi. Lui, invece, tolse il suo cappello verde e lo sostituì con il mio, da bigliettaio. I passeggeri lo salutavano, lui ricambiava con un sorriso e poi consegnava il biglietto. Qualche dolce signora gli pizzicava le guance, finché una donna anziana gliele tirò così forte da fargli arrossire l'intera faccia. Trattenni un sorriso per poco, ma Michael era furbo e, non appena questa andò via con il suo biglietto, si voltò verso di me per fare una smorfia.
"Adesso, cosa facciamo?" mi chiese, appena il suono delle campane avvisò i passeggeri dell'ora del giorno. Molti si affrettarono per raggiungere il loro treno, qualcuno invece si avviò verso il forno di Jean. Michael continuava a guardarsi intorno, cercando di capire cosa stesse accadendo.
"È ora di pranzo" gli dissi, vedendolo confuso. Lui sollevò gli occhi su di me e annuì, con l'aria di aver capito.
"Possiamo andare da Jean anche noi" dissi, nascondendo una domanda. Lui non si soffermò sulle mie parole, in silenzio si avvicinò alla folla che stava per raggiungere il forno di Jean, di tanto in tanto si voltava come per controllare se lo stessi seguendo.
"Bonjour" salutò.
"Bonjour" gli rispose il fornaio. Michael si sedette buono, aspettando che mi avvicinassi. Consumammo il nostro pasto in silenzio, sentivo Michael emettere dei suoni di gradimento fra un morso e l'altro, mentre io tacevo.
"Torniamo a casa" dissi, uscendo dal forno. Michael mi guardò incuriosito, si voltò verso la biglietteria e con gli occhi grandi mi guardò di nuovo.
"Perché?" chiese "I treni continuano ad arrivare e partire" osservò. Il mio nuovo compagno di giochi era solito osservare tutti i miei movimenti, si poneva poi delle domande, si dava delle spiegazioni e in qualche strano modo bambinesco, cercava di imitarmi e studiarmi. Apprezzai il ruolo che Michael mi affidò in poco tempo, ma allo stesso modo ne ero spaventato. Non avevo dei figli e, fino ad allora, non mi ero mai preso cura di un bambino. Michael, poi, non era un bambino qualsiasi. Era forse orfano, un figlio adottato, curioso, grande e scaltro. Osservava il mondo, le persone, il loro modo di parlare con lui e con gli altri.
"Il mio turno è finito" dissi prontamente. Lui si limitò ad annuire, alzò gli occhi al cielo per osservare il tetto della grande stazione e spostò di nuovo lo sguardo su di me.
"Allora portami a vedere Parigi" disse.
La città era grande e inghiottiva l'esile corpo di Michael. Lui, in risposta, osservava Parigi con rispetto e riverenza, così come facevo io. Il mio piccolo amico, abbracciava la città con l'innocenza di una vergine, accoglieva i suoi sapori, i colori e traeva gioia nel guardare i passanti. Portai Michael al Pont des Arts, il luogo degli amanti, la passerella degli artisti, il mio posto preferito. Chiesi la mano della mia defunta moglie proprio al fianco destro del ponte, dove un buon uomo dipingeva la stella più bella mentre lasciava il posto alla Luna. Sotto la debole luce del Sole, gli occhi di Claudette si inondarono di lacrime quando mi inginocchiai ai suoi piedi e, miseramente, le donai il mio cuore. Michael guardava con attenzione l'orizzonte, cercando forse l'Inghilterra. Io, invece, guardavo la grande Tour Eiffel, la quale torreggiava su Parigi, imponendo la sua presenza ai visitatori, gli uccelli e gli occhi degli abitanti. Attraversammo il Pont des Arts in silenzio, io sognavo Claudette e la sua incantevole dolcezza, Michael sognava suo padre e la bellezza di Parigi.

L'eredità di ClaudetteWhere stories live. Discover now