4. La nostra casa

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Novembre 1930

Pochi furono i bambini che prima di Michael entrarono in questa casa. La stessa casa che io e Claudette, la mia meravigliosa moglie, amammo e accudimmo per lunghi giorni. Quando lei mi lasciò, queste mura divennero grigie, sporche di tristezza, fredde e con crepe profonde, come quelle che la sua morte lasciò nel mio cuore. Questo comunque non mi preoccupò, più camminavo insieme al buffo passo di Michael, più mi convincevo che lui, di case accoglienti, ne aveva viste ben poche. Provai ad immaginare la sua storia. Era scappato? Ogni mia domanda era prepotente, invasiva e Michael di questo non se ne occupava, camminava con il suo passo saltellato, i calzettoni alle ginocchia e la sua cartelletta di cuoio ben stretta in mano.
"Quanto manca ancora?" spostò lo sguardo fra le case parigine mentre le luci rendevano il suo viso pallido, ma bello.
"Poco" risposi mentre lo osservavo.
"Perché eri in Italia?" domandai. Improvvisamente Michael iniziò a correre, ma perché? Non voleva parlare della sua storia? Speravo avesse visto qualcosa che avesse attirato la sua attenzione. Malgrado la mia età, iniziai a correre seguendo i suoi passi.
"Michael!" urlai.
"Michael fermati, mi dispiace" alle mie parole si fermò in fondo al marciapiede e li capii di dover tacere. Il suono delle sue scarpe, che battevano sul marciapiede, cessò ed io ripresi a respirare. Mi avvicinai, mentre lui era immobile, di spalle.
"Non voglio che mi vengano fatte domande. Ho accettato di venire con lei perché è stato gentile, signor William. Non risponderò alle sue curiosità", si voltò. Vidi le sue guance rigate dalle lacrime salate e gli occhi infuriati.
"Mi...mi dispiace" balbettai. Facevo fatica nel credere che Michael non si fidasse di me. Accettai il silenzio da parte sua, assecondando la scelta di non parlare della sua storia.
Arrivammo in casa e Michael sussultò alla vista della grande libreria che Claudette aveva lasciato.
"Ti piace?"-chiesi mentre lui si avvicinava ai titoli impolverati che non ebbi mai più il coraggio di leggere. Lui si limitò ad annuire, sembrava stesse trattenendo il fiato.
"Sai leggere?" accesi alcune candele e la lampada, così che la luce si diffuse il tutta la stanza.
"Sì. I...i miei genitori" esitò e spostò lo sguardo sui miei occhi, senza battere le ciglia "Loro volevano che leggessi. Il mio maestro mi puniva quando sbagliavo le lettere". I suoi occhi si intristirono, forse per il ricordo delle punizioni del maestro o forse per i suoi genitori, lontani da lui adesso.
"Che genere di punizioni, se posso chiedere?" misuravo le parole con la paura. Come uno scontro sempre aperto, io e Michael non smettemmo di guardarci. Utilizzavo una bilancia sensibile, che riuscisse a misurare le emozioni di questo piccolo bambino e tenesse a bada i miei pensieri e le mie domande.
"Era solito bacchettarmi sulla mano sinistra o farmi rimanere in piedi per un'ora". Sembrava non essere preoccupato dell'atteggiamento del suo maestro. Mi spiegò che accettava le punizioni a lui impartite e, affermò che grazie ad esse sapeva leggere.
"Hai fame?" chiesi mentre si sedette su una delle sedie della cucina. Questa sembrava poi troppo grande per lui, addirittura un trono su cui sedere. Michael annuì sorridendo e io mi limitai a muovermi impacciatamente fra le credenze, per preparare la nostra cena. La presenza di Michael mi imbarazzava.
"Vorrei dormire" sbadigliò dopo aver finito la sua cena. Accompagnai Michael in una camera che Claudette utilizzava per gli ospiti. Non ci fu mai il bisogno di usarla, i miei genitori non vennero mai a trovarci, loro non amavano la Francia. Mi affrettai per prendere delle coperte e preparare la camera di Michael per la notte. Lui rimase in piedi, davanti la porta, con lo sguardo stanco. Tolse il cappello, mentre con l'altra mano stringeva la sua cartelletta.
"Ho una lettera, qui dentro" disse a voce bassa, come se non volesse essere ascoltato.
"Mi hai sentito?" scattò.
"Sì, Michael, ti ho sentito" mi voltai. Aprì la cinghia dorata della cartelletta di cuoio e ne estrasse un foglio di carta, ingiallito, vecchio e logoro.
"I miei genitori sono Allison e Harold Tomson. Vivono in Italia" disse con voce tremante.
"Continua" risposi facendogli cenno di sedersi al mio fianco, sul letto cigolante, ma rimase in piedi, ancora di fianco alla porta.
"Sono stato adottato in Francia, dieci giorni dopo la mia nascita. È scritto qui" distese il braccio, porgendomi il foglio di carta, cosicché riuscissi a leggere. Michael nacque a Londra il 19 Febbraio 1918, il padre era Louis Jelaque, della madre invece non vi era scritto il nome. Forse orfano, Michael venne adottato il 29 Febbraio dello stesso anno, da Allison ed Harold Tomson, a Lione.
"Perché erano in Francia, Allison ed Harold?" chiesi, mentre lui mi guardava perplesso.
"Comprarono una vecchia bottega di Lione e la trasformarono in un negozio di stoffe. Mio padre, Harold, si procurò dei clienti in Italia, così decisero di trasferirsi a Firenze, da dove sono scappato" si strofinò le mani sulle ginocchia, imbarazzato per il suo gesto imprudente. Poi continuò.
"Voglio conoscere mio padre, devo raggiungere Londra" gli occhi di Michael si inondarono di lacrime ed io, dopo tanto tempo, rividi lo sguardo di Claudette in quel fragile bambino. Presi un tovagliolo di stoffa per Michael, lui si asciugò gli occhi e si mise a dormire.
Passai la notte ad immaginare la storia di Michael, suo padre era francese, ma perché era a Londra? Chi era sua madre? Perché venne adottato? E, soprattutto, era orfano?

L'eredità di ClaudetteWhere stories live. Discover now