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Notte fonda. Nessun rumore. Soltanto, in lontananza, il ronzio delle auto che sfrecciavano nella vicina strada statale.
Silvia, a pancia in su e con le mani congiunte, provò a immaginare i volti di chi, a quell'ora, ancora girava per le strade di Kyedi; qualcuno stava andando a lavoro, qualcuno era di ritorno da chissà quale locale notturno. Ci sarà stata anche una famiglia, e magari uno o due bambini che, accoccolati sui sedili posteriori, erano caduti in un sonno molto profondo.

Le sembrava di rivedersi quando con i suoi genitori faceva ritorno a casa, dopo essere stati a cena dalla nonna. Erano circa 15 kilometri o forse meno, il giovedí era fisso l'invito a cena nella sua casa squallida di un piccolo condominio. Si mangiava il solito pollo arrosto con le patate sempre un po' bruciacchiate, e si percepiva sempre il solito odore di muffa e di chiuso, sensazioni non proprio piacevoli, ma allo stesso tempo cosí accoglienti e familiari.

Il volto di Silvia era sereno mentre, supina, stringeva con le mani le lenzuola a sé; si sentiva protetta da quei ricordi di bambina, ed era tanto tempo che non portava alla memoria il passato, il suo.

Poi si addormentò.

La stessa mattina si alzò dal letto stiracchiandosi e con un sorriso smagliante, forse giustificato dalla bella giornata. Se non avesse saputo che era inverno avrebbe scommesso che quella era una mattina d'estate; gli uccellini stavano iniziando a cantare, e il sole splendeva mettendo in risalto i minuscoli granelli di polvere che danzavano per la stanza. Sembrava che volessero incitarla a pulire, a mettere ordine. Non era una cattiva idea, tuttavia non c'era tempo. Doveva essere una giornata frenetica quella, non sapeva perché.

Si diresse verso l'armadio e si vestí in fretta, fece colazione in un bar vicino casa e poi si avviò verso il parcheggio.
Raggiunta la macchina rimase perplessa; si era appena accorta che effettivamente non aveva deciso dove andare. Cosí sorrise, burlandosi di se stessa. Prese ugualmente l'auto e in un batter d'occhio decise la sua meta.

Accostò dunque la macchina in un lato della strada e cercò il numero di Daniel in rubrica. Non era speranzosa, magari lo aveva cancellato per sbaglio, e infatti non trovò il suo numero, bensí un vecchio indirizzo di casa segnato su "note". Forse Daniel viveva ancora lí. Non costava nulla provare, quindi, dopo aver letto attentamente l'indirizzo e aver ricordato il paesino- che si trovava soltanto a 15 minuti di distanza- ripartí.

La via era sicuramente quella; rallentò cercando di trovare la casa di Daniel, o almeno quella che un tempo era casa sua. Poi la riconobbe; era marroncina, con la porta verde acceso, la quale sembrava essere stata verniciata da poco. Parcheggiò l'auto quasi di fronte all'abitazione e scese agitata. Non vedeva Daniel dai tempi dell'Università. Si avvicinò e bussò delicatamente alla porta, concludendo, a causa dell'odore, che la porta era senza dubbio stata verniciata da poco.

Dopo qualche secondo la porta si aprí, dietro di essa una donna sui trent'anni, mora, alta, con una coda di cavallo, abbastanza sorridente.
«Buongiorno, un informazione,» disse la dottoressa «Daniel Hiwer vive ancora in questa casa?»
«Sí, come possiamo aiutarla?» rispose, ora, con un espressione diffidente.
«Sono una sua vecchia amica, e ho bisogno del suo aiuto, é in casa?»

La donna rifletté per un attimo, e poi, con un falso sorrisetto rispose, fingendo cordialità. In realtà quella che nascondeva era gelosia. Era evidente.
«Sí, é in casa. Ma entra...» disse con un cenno della mano.
«Io sono Megan, la compagna, tu dovresti essere...»
«Silvia, Silvia Wond» rispose subito la dottoressa.

Cosí Megan la fece accomodare sul divano. La gelosia non se ne andava.
«Quando vi siete conosciuti?» domandò la donna, inziando a indagare. Silvia se lo aspettava.
«All'Università. Ho ricordato per caso la tesi che Daniel aveva presentato e ho pensato che un suo consiglio mi sarebbe stato d'aiuto... A proposito, ora dove lavora?»
«Ha scelto di lavorare proprio all'Università, é un professore» affermò soddisfatta Megan.
«Ah, bene. Io invece lavoro in un ospedale. Cerco di aiutare chi ha problemi psichici...» disse invece Silvia annuendo leggermente imbarazzata.

Quella ragazza si ostinava a fissarla. Voleva mostarsi gentile, simpatica, ma un sentimento di forte gelosia la divorava da dentro. Silvia capiva il suo stato d'animo, ma sapeva anche che quella che aveva di fronte era una ragazza debole, insicura. Altrimenti perché temere una donna che non ha un filo di trucco e che si veste con dei vecchi jeans?

Passarono altri cinque minuti: Megan le aveva preparato una tazza di té caldo, per riscaldarsi da queste fredde giornate, aveva affermato. Silvia beveva il té un sorso alla volta; era bollente e si convinse che quello era un altro piccolo indizio rispetto a quel sentimento negativo che Megan provava nei confronti della dottoressa.
Per un attimo immaginò che la donna avesse chiesto a Daniel di non uscire dalla sua stanza, e che poi, con falso rammarico, avrebbe invitato Silvia ad andarsene e a tornare un'altra volta.

Ma proprio mentre rifletteva su quella scena che si era costruita nella mente, una porta si aprí bruscamente non poco lontano da loro. Un rumore di passi, lenti, irregolari. Un uomo con i capelli spettinati, vestito con dei jeans e un maglioncino di lana, sbucò dal corridoio.

Quando vide Silvia si bloccò, rimase sorpreso, ma poi la sua espressione sbalordita si trasformò in un largo sorriso. Megan si alzò e lo precedette.
«Lei é Silvia... Dice di essere una vecchia amica dell'Università, non so se ti ricordi» disse in fretta.
«Ma certo che mi ricordo di lei. Silvia Wond, qual buon vento?» esclamò avvicinandosi senza degnare Megan di uno sguardo.

Dunque Silvia si alzò sorridente.
«Sono venuta a trovarti, ma non é solo una visita di cortesia...» disse.
«Ah, bé, siediti. Di cosa vorresti parlare?» chiese Daniel con uno sguardo piú serio, sedendosi dove fino a poco tempo prima si era seduta la sua fidanzata.
Silvia, istintivamente, rivolse il proprio sguardo verso Megan. Non voleva cacciarla dalla stanza, ma non le faceva nemmeno tanto piacere che ascoltasse la loro conversazione.
Cosí l'uomo se ne accorse, e con sguardo gentile chiese alla compagna di lasciarli da soli. «Ci vorrà solo un attimo» aveva detto per consolarla.

Dunque, appena la donna se ne andò, la dottoressa iniziò a raccontare senza tralasciare alcun dettaglio. Parlava e parlava, non riusciva a fermarsi, e si rilassò soltanto nel momento in cui il racconto terminò.
Daniel era perplesso. Forse anche un po' sconvolto, ma non ci volle molto. In mente aveva già un consiglio da dare alla sua vecchia amica.

«Se non ho capito male ti sei sentita smarrita e confusa quando hai ricordato tua madre. Non é vero?» domandò.
«Sí, credo che si tratti del senso di colpa per non essere stata al suo fianco. »
«Ma eri soltanto una ragazza e vi siete solo allontanate. Non avete discusso. »
«

Lo so, ma lei aveva bisogno di aiuto. La morte di mio padre l'aveva sconvolta e io... Io non sono stata capace di starle accanto. »
«Potresti farlo ora» affermò Daniel, perfettamente convinto delle sue parole.
Silvia ebbe una stretta allo stomaco, forse aveva capito male.
«Come dici scusa?» domandò allora.
«Dico che potresti starle accanto ora. Ti aiuterà. Quando il passato torna a galla non si può far finta di nulla, ma dobbiamo essere noi risolvere ciò che é rimasto in sospeso, perché non deve far paura. Senza di esso non possiamo costruire il nostro presente. »

Silvia ammutolí. La cosa piú brutta era che Daniel aveva ragione, ma lei non aveva il coraggio di rivedere sua madre dopo tutto quel tempo.
«Vai da lei. Trova la sua casa e, come hai fatto con me, bussa alla sua porta. »
«E se non volesse vedermi? Se mi cacciasse?»

Daniel sorrise.

«No, non lo farà. »

LA PAZIENTE Où les histoires vivent. Découvrez maintenant