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Era stata una notte stranamente serena. Nessun mal di testa, nessun incubo. Le coperte erano intatte, come se vi si fosse appena stesa. Purtroppo riaffiorò il ricordo del suo piano, di ciò che avrebbe fatto quella sera. Sì, si disse, la sera è il momento perfetto.
Mentre sorseggiava il caffè caldo ricordò il primo giorno in cui aveva incontrato Laura Jemmin: era entrata nella sua camera convinta che si trattasse di un caso come un altro. Quanto si sbagliava. Se avesse detto a Rose che non poteva occuparsene, costringendo la collega a fare del suo meglio, forse non sarebbe morta, e Silvia non avrebbe avuto così a cuore la questione. Scacciò il pensiero che l'aveva colpita d'un tratto, come uno schiaffo in pieno volto. Sfogliò la galleria del suo cellulare in cerca di quello che le serviva per quella sera, e, dopo aver trovato quello che cercava, finì il suo caffè con un solo sorso e andò a vestirsi.

Il viaggio fino a Wiklyn non era stato rilassante. Durante il tragitto era rimasta con le dita strette con forza attorno al volante, quasi non se ne volesse più separare. Quando si accorse che aveva anche le mascelle serrate e percepì le membra tese, tentò di abbandonarsi al sedile e alzò il volume della radio. Si sentiva già un po' meglio. La superstrada era poco affollata in quel momento, d'altronde era l'ora di pranzo e nessuno avrebbe rinunciato a un piatto caldo per un viaggio in balia del freddo e della pioggia. Forse la pazza qui sono io.
Non appena arrivò a Wiklyn imboccò la strada del cimitero: l'aveva notata l'ultima volta che aveva visitato il paesino. Il terreno era stato asfaltato da poco, e accanto alla strada erano stati piazzati una serie di pini. Il tutto portava a un desolante parcheggio con massimo dieci posti auto. Fortunatamente l'unica era lei in quel momento. Posteggiò il suo veicolo sportivo ed entrò nel cimitero, percorrendo un vialetto ricoperto da sassolini bianchi. Impiegò parecchio tempo ma alla fine li trovò: Jessie Jemmin, e a fianco Mark Jemmin.
Silvia si inginocchiò e osservò le due lastre di pietra infilzate nel terreno erboso. Mark nella foto aveva la sua solita espressione burbera, da uomo severo e attento. Tuttavia nei suoi occhi percepì una bontà d'animo che fino ad allora non credeva gli appartenesse.
Spostò la propria attenzione su Jessie. Era davvero molto bella. Il suo viso era fresco, emetteva luce, e le ciocche scure- che si intonavano perfettamente con gli occhi a mandorla- mettevano in risalto la carnagione chiara. Si allungò vicino alla lastra e sfiorò l'immagine della ragazza, immaginando di farle una carezza. «Perdona tua sorella, non voleva veramente toglierti la vita. Non sta bene e me ne prenderò cura» sussurrò, e poi si rivolse al padre. «Mark, essere padre è difficile. So che ha amato molto le sue figlie, mi dispiace molto non averglielo mai detto. Una volta mi chiese se fossi madre, e io le risposi che non lo ero. Beh, oggi posso dire di voler diventare...»
Cosa era stato? Si voltò di scatto, aveva sentito un fruscio dietro di lei. Trasalì. Qualcuno la stava spiando, ma i sassolini avevano tradito la sua presenza.
«Chi c'è?»
Nessuna risposta.
«Dove ti stai nascondendo? Esci fuori, mostra il tuo vero volto avanti!» urlò determinata. Era stanca di quella situazione.
«Va bene, fa come vuoi»
Nessun movimento. Si voltò di nuovo verso le tombe, e fu allora che vide una figura proprio davanti a lei, a più o meno dieci metri di distanza. Era alta tra un metro e settanta e un metro e ottanta, non seppe definirlo con esattezza. Aveva il cappuccio calato sul volto, indossava una larga felpa nera che impediva di capirne la corporatura, e dei pantaloni di cotone, di taglia abbondante e neri anch'essi. Scappò goffamente verso l'uscita del cimitero e Silvia, dopo solo un attimo di esitazione dovuto alla paura, lo inseguì. Lo stava raggiungendo, ma i sassolini che le erano entrati nelle scarpe le causavano un tremendo dolore man mano che correva. Le era vicina, molto vicina, ma quell' imprevisto le impedì di accelerare. Il misterioso individuo uscì dal cancello e svoltò a destra, verso i parcheggi. Silvia fece un ultimo sforzo, ma quando raggiunse finalmente la macchina, il furgone bianco- che tanto temeva di trovare una volta uscita- era già in moto e percorreva velocemente la strada per tornare indietro. Afferrò velocemente il cellulare dalla borsa e fece una foto alla targa. Era molto sfocata, eppure riusciva a distinguere i numeri e le lettere. Quel maledetto capo dei camion l'aveva seguita in modo meticoloso, e non si era accorta di nulla. Sei molto scaltro. Dopo aver realizzato completamente l'accaduto salì in auto, e subito sentì vibrare la coscia. Era il suo cellulare, stava squillando. Numero sconosciuto.
«Chi parla?»
«Ascoltami bene dottoressa». La voce le risultò sconosciuta. Apparteneva ad un uomo, ma evidentemente aveva trovato un modo per mascherare la sua reale voce.
Si bagnò le labbra e si accorse che anche la gola si era d'un tratto seccata. Tentò di mantenere la calma.
«Torna a casa tua e occupati di quei pazzi a cui tieni tanto. Puoi fare quello che vuoi, puoi anche ammazzarti se desideri, ma non ti immischiare in affari che non ti riguardano».
Silvia schiuse le labbra e poi si fece coraggio. Stava tremando.
«Quali affari se posso saperlo?»
«Lo sai bene Silvia»
Sussultò a sentire il proprio nome pronunciato da quello che intuì si trattasse dello Sconosciuto98.
«No, invece non lo so. E di conseguenza non potrò fare quello che mi chiedi» rispose fingendosi seccata.
«Cara dottoressa, sei fin troppo intelligente per non sapere di cosa stiamo parlando. Ci vedremo presto». Il segnale era libero. Aveva riattaccato.
«Stronzo» imprecò colpendo il volante sonoramente.
Il battito era accelerato, e si appoggiò una mano al petto quasi per calmarlo. Aspettò cinque minuti, poi ripartì.

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