Capitolo 16. - Accettarsi.

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- Sono stanco di far finta di non conoscerti! – urlai.

Non volevo urlare, ma persi la pazienza. Ero stanco di vivere una doppia vita.

E a lui davvero stava bene? Ogni mattina era la solita storia: eravamo due estranei.

Odiavo far sempre finta di nulla, incontrarci nei corridoi e guardare dall’altra parte come se niente fosse.

Stavamo insieme, al diavolo gli altri!

- Non ti sembra di iniziare a chiedere troppo? Stiamo insieme e ci vediamo ogni sera. Dov’è il problema? – disse.

 Fingeva di non capire. Il punto è che non voleva fare la mia fine, e questo potevo anche capirlo, ma non accettarlo.

Essere etichettato come checca ed essere picchiato non era certo il massimo che uno si può aspettare dalla vita.

Eppure quella era la mia vita e non riuscivo ad ottenere di meglio.

O me, o la tua fottutissima normalità! Mettitelo in testa: tu non sei normale, ok? Sei bisessuale, fattene una ragione!

Si girò e se ne andò senza aprire bocca. Forse avevo esagerato.

Non si fece vivo per una settimana. A scuola non lo vidi, se non di sfuggita tra un’ora e l’altra.

Ed a quel punto, non c’era più un forse, avevo esagerato e basta. Non era quello il modo di aiutarlo a capirsi, ed io non lo avevo capito prima, troppo preso dalla rabbia e dal rancore verso il mondo che non faceva altro che rinfacciarmi il fatto che non rientrassi negli schemi prestabiliti.

Lunedì.

Ogni mattina era la stessa storia. Dalla cucina Anna gridava che era tardi ed io ancora non avevo finito di prepararmi.

Pensavo troppo a come vestirmi, e non ne avevo neanche il motivo. Non lo vedevo più da una settimana. Non sapevo neanche se stessimo sempre insieme o se fosse finita lì, quel giorno.

Anna si affacciò in camera.

Aveva imparato ad ignorare me e la mia omosessualità. Gli dava un fastidio tremendo, ma cercava di nasconderlo. Non per fare un piacere a me, ma solo per tenersi stretta mio padre.

- Muoviti, ha suonato Valerio e ha detto che ti aspetta giù.

Uscì dalla camera velocemente  e si chiuse dietro la porta.

Mi guardai allo specchio e feci una smorfia vedendomi. Non avevo più tempo per cambiarmi, presi la giacca di pelle sulla sedia della scrivania e me la infilai. Presi lo zaino vicino alla porta e corsi giù per le scale mentre Anna mi gridava dietro che in tavola c’era la colazione.

Colazione? Mi si era chiuso lo stomaco sono al suono del suo nome.

- Che ci fai qui? – chiesi avvicinandomi alla moto. Si girò a guardarmi e mi spostò i capelli dal volto.

- Lo  vuoi un passaggio? – disse senza espressione. Lo fissai un poco, ma non aveva nessuna espressione in volto. Come sempre.

-Cosa ti prende?

Sospirò e si infilò il casco:

-Vieni o no? – disse, porgendomi l’alto casco.

Non ci pensai su, lo presi e montando in moto lo infilai.

Mi strinsi a lui, non tanto per non cadere, ma solo per quella maledetta ed irrefrenabile voglia di sentire il calore del suo corpo vicino al mio.

MirkoWhere stories live. Discover now