18.

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ANNE

Erano le nove passate e ormai a quest'ora se ne era andato. Potevo sgusciare fuori dal mio luogo sicuro.

Abbandonai la mia camera da letto diretta verso la terrazza per fare finalmente colazione. Mi ero rigirata tutta la notte nel letto, non riuscendo a prendere sonno a causa dei troppi pensieri e dai sensi di colpa verso me stessa.

Ieri notte era una notte da dimenticare.
Quando era piombato silenzioso nella mia stanza, dal momento in cui mi ero alzata dal mio divano mi ero imposta di spegnere il cervello per non provare dolore e far finta che tutto quello non stesse accadendo.

Fino a qui tutto bene, le cose avevano ben presto iniziato a peggiorare quando ci eravamo trovati in quella stanza che non avevo visto prima.
Erkan faceva di me e con me tutto quello che passava nella sua mente malata. Il mio primissimo rapporto lo avevo avuto con lui il giorno del mio ventiquattresimo compleanno; proprio così, aveva deciso che quello sarebbe stato il mio regalo di compleanno. Il dolore che avevo provato era indicibile, ma quello fu solo il primo... quasi una bazzecola in confronto a tutto il resto.
Una delle numerosissime volte in cui mi aveva violentata, il male che mi aveva inferto era stato talmente forte che avevo perso i sensi.
Scossi il capo. Erkan ormai era morto e non lo avrei mai più rivisto.

Quello che mi ha reso difficile, anzi impossibile, riuscire a staccare il cervello ieri notte è stato il suo comportamento nei miei confronti.
Can mi aveva baciata delicatamente come se fossi un timido fiore, mi aveva accarezzata e non picchiata, si era preso cura di me. Da qui sono partiti i miei sensi di colpa; il mio corpo si era acceso, come mi toccava, come mi guardava... mi piaceva. A differenza di quanto mi aveva urlato in faccia, mi aveva trattata come una donna. Nei suoi occhi avevo visto il desiderio, quello era innegabile, ma non la voglia di farmi male.
Nonostante stessi impazzendo per come mi toccava, non appena avevo sentito le sue dita sulle mie mutandine la mia... eccitazione?... era scomparsa, tutto quello che mi era successo mi era tornato alla mente come un fulmine e la paura che riaccadesse si era impossessata di me.

In quel mese il mio corpo e la mia mente erano riusciti piano piano a riprendersi da tutto e le cicatrici avevano avuto il tempo si cicatrizzarsi. Mi era sembrato quasi un lusso e il fatto che mi potesse essere di nuovo tolta la possibilità di vivere quasi normalmente mi aveva distrutto.

Quando ero riuscita a scivolare via dalle sue mani avrebbe potuto benissimo impedirmi di scappare e violentarmi, d'altronde lo aveva quasi fatto più di due settimane fa, perché non farlo di nuovo? Invece mi aveva ripetuto la promessa che mi aveva fatto, ma io ormai ero precipitata in un turbinio di paure e non gli avevo dato peso. Nell'istante in cui avevo mormorato tra i singhiozzi il suo nome i suoi occhi si erano incupiti e mi aveva lasciato andare.

Che forse Rubino in fondo in fondo in fondo avesse ragione? C'era davvero una parte buona in lui?

Uscii in terrazza, trovando la tavola imbandita come ogni mattina ma c'era qualcosa che non tornava. Prestai più attenzione e vidi che le posate e il piatto di Can si trovavano ancora lì, freschi e puliti.
Non aveva fatto colazione oppure si trovava ancora in casa?

Per evitare ogni inconveniente, mi voltai rapidamente per correre nella mia stanza. Tuttavia un petto statuario mi impedì ogni fuga. Merda.

Una sua mano si posò sulla mia schiena ed io alzai gli occhi verso di lui, incontrando le sue iridi nere.

"Merhaba." Mi salutò, senza allontanarsi da me. La sua espressione era stoica e leggermente contratta e solo ora mi ricordai dell'enorme livido che figurava sul suo petto.

Mi allontanai e distolsi lo sguardo. "Merhaba." Mormorai, dirigendomi al mio posto.

Iniziai a servirmi intanto che lui si accomodò. Nonostante non lo stessi guardando io sapevo benissimo che lui invece stava osservando minuziosamente ogni mio movimento, sentivo il suo sguardo sulla mia pelle.

𝗦𝗔𝗕𝗕𝗜𝗘 𝗠𝗢𝗕𝗜𝗟𝗜 {𝙲𝚊𝚗𝚎𝚖}Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora