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«Aspetta, fammi capire bene» Dylan è intento a mescolare qualcosa all'interno di una padella; il profumo che arriva non è poi così male come l'aspetto che invece ha. «Dovrei venire per la terza volta a teatro, a vedere lo stesso spettacolo di Kat?»

«Esatto, sì» sgranocchio un grissino perché non ho idea di quando riusciremo a pranzare. «Hai capito proprio bene.»

«Perché?»

«Perché è la tua migliore amica» replico, stringendomi nelle spalle. «Ecco perché.»

«No, Cecy» il cucchiaio di legno me lo punta contro, rischiando di macchiare di sugo tutto ciò che indossa. «È la tua migliore amica.» Mi corregge e alzo persino gli occhi al cielo perché lo sa che lo odio quando lo dice.

«Dylan, non fare i capricci» borbotto e manca tanto così a che metta addirittura il broncio. «Kat e io veniamo sempre alle tue stupide partite di calcio.»

«Ma lo spettacolo è sempre lo stesso!» Sussulta perché deve essersi schizzato con il sugo bollente.

«Anche le tue partite sono sempre le stesse.» Ribatto, alzandomi da tavola per recuperare i piatti, che magari serve a farlo spicciare.

«Non dire mai più una cosa simile» alzo gli occhi nuovamente al cielo, ma gli do le spalle e non mi vede. «A proposito: verrete oggi pomeriggio, vero?»

«Abbiamo alternative?» Domando retorica, sedendomi a tavola di nuovo, mostrandogli l'orologio che porto al polso; Dylan scuote la testa. «Ecco, appunto.»

Il mio telefono prende a squillare nello stesso momento in cui una telefonata arriva sul cellulare di Dylan. Lui però esce dalla cucina, che sono più le volte in cui pronuncia aspetta, non ti sento rispetto alla reale conversazione che deve sostenere. Sono così concentrata a rispondere ai messaggi di Kat che non mi accorgo del ritardo di Dylan e di conseguenza, il sugo in padella brucia. Ritorna giusto in tempo per sgridarmi, che dovevo stare attenta a che non succedesse.

Mi alzo da tavola con l'intento di andarmene e arrangiare qualcosa a casa mia, ma poi ricordo di essere qui perché in realtà, c'è poco e niente da poter mangiare là. Dylan e io sospiriamo nello stesso momento, sedendoci entrambi al tavolo con le mani a sostenerci il mento, quasi a sperare che il pranzo si manifesti all'improvviso.

«Indiano?» Mormora Dylan, indicando il solito volantino appeso al frigo con una calamita orribile e mezza rotta; mi stringo nelle spalle.

«Indiano.» Replico, componendo il numero che ho ormai imparato a memoria.

Finiamo di pranzare così tardi che raggiungendo il campus, Dylan deve aver infranto almeno una decina di norme stradali. Mi lascia direttamente davanti alla Biblioteca, il parcheggio lo deve cercare poco più in là del solito. Jules è impegnato in un'animata conversazione telefonica quando sorpasso le porte automatiche e mi fulmina persino con lo sguardo per essere arrivata tardi. Mi stringo nelle spalle passandogli accanto perché lo sa che non è mai colpa mia. Sul retro lascio solo la borsa, portando con me sempre il cellulare; quasi mi pungo con la spilla che appunto appena sopra il cuore.

«Sei in ritardo.» Borbotta Jules dopo aver chiuso la chiamata, ma non mi guarda direttamente negli occhi, tanto è intento a scrivere velocemente qualcosa su un post-it, che attacca vicino alla tastiera del computer.

«Dylan ha bruciato il pranzo» mi difendo, controllando la solita lista lasciata dalla signorina Penny. «È già tanto che io sia qui.» Aggiungo e lo sento sogghignare mentre si arrotola le maniche della camicia fin sopra i gomiti; devono aver alzato il riscaldamento nelle ultime ore.

«Io devo scappare o il coach Hendriks non mi farà nemmeno avvicinare al campo» il badge lui lo toglie direttamente, lasciandolo cadere sul bancone. «Ci vediamo dopo, vero?»

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