4. SIMPOSIO.

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Il bonsai sta morendo

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Il bonsai sta morendo. Lungo il tronco, ancorati ai rami sottili e protesi verso l'alto, incrostati sulle minuscole foglie, gli afidi ne divorano l'essenza, scavando, trafugando, forando. Sono parassiti mangia carne che brulicano e masticano, spogliandolo della chioma. È un pepe di Sichuan, un essere grazioso, dinoccolato, elegante, abbastanza forte da resistere alle lievi gelate invernali. Roma, però, è uggiosa, non fredda: l'umidità unge i marciapiedi e penetra nelle ossa, accompagnata da temporali che spezzano il cielo e lo fanno colare lungo le facciate degli edifici, otturando le fogne ed allagando le strade. Creando code interminabili sulla via del mare. Il clima di Roma sta uccidendo il suo pepe e Tito, incapace di rimediare, è complice dell'omicidio: lo guarda appassire, solo, sistemato sul davanzale dell'unica finestra della cucina, tentando di esporlo alla manciata di raggi che rompono la cortina di nubi addensate sulla città. Lo osserva appassire, impotente, e vorrebbe gridare. Vorrebbe raccoglierlo - con le foglie essiccate, i rami anneriti e l'orribile vaso in terracotta dalla base scheggiata - e portarlo al negozio, chiedendo indietro i propri soldi: l'hanno truffato, vendendogli un bonsai difettoso, malato, l'unico pepe troppo fragile per affacciarsi sulle strette vie che irrorano Tiburtino.

Tutto ciò che fa, però, è studiare la propria immagine, riflessa sulle ante a specchio dell'armadio: la sua camera, levigata da sfumature color seppia, dalla luce soffusa proveniente dal lampadario, è un dipinto dalla cornice spessa. Una piatta, bidimensionale, tetra scena di genere in cui il letto è un rettangolo sfatto dagli angoli curvi ed il tappeto una striscia ruvida che gli graffia le piante dei piedi. Un quadro dentro un quadro, un espediente artistico: un uomo ordinario, sfinito e spigoloso che studia il volto incavato ed esangue di un altro uomo ordinario, con la stessa faccia, la stessa espressione, le stesse mani parzialmente coperte dai polsini aperti della camicia.

È la sua camera di Vincent: la sua accozzaglia di sedie spagliate, solitudine abissale e pareti collassate. L'autoritratto della sua disperazione, firmato 5 novembre 2019.

Ci ha provato a fare l'uomo. Ad apparire come un adulto, con il volto pulito, l'abito buono e la barba dimenticata nel lavandino, accanto alla lametta sporca; eppure, a ricambiare il suo sguardo colmo di rammarico e frustrazione, c'è lo stesso disastro che vede ogni mattina, trascinandosi di fronte allo specchio del bagno.

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