8. RISOLUZIONE III.

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Risoluzione, III, Tito

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Risoluzione, III, Tito.



È destabilizzante. Quando Tito apre gli occhi, le palpebre sono fogli di carta stagnola che si stracciano e si accartocciano, creando grumi scuri che riducono la vista periferica. Il salone del suo appartamento, parzialmente oscurato, è la ripresa statica in rapporto 4:3 che illumina lo schermo di un vecchio televisore.

Ha la faccia schiacciata sul pavimento, le labbra screpolate e la saliva si è seccata in un rivolo che corre lungo la guancia. Il silenzio è innaturale. Sfrigola, vivo, scoppiando attorno al suo corpo come un incendio che divora la boscaglia, lambendo i tronchi rigidi degli alberi. Anche la luce è strana. Psichedelica. Non ci sono finestre, attorno a lui - né porte, né lampadari che pendono dal soffitto -, solo quattro, insormontabili muri coperti dalla sporca carta da parati attaccata dal proprietario. Vede le stesse imperfezioni: i lembi arrotolati, i graffi agli angoli, le bolle d'aria. C'è tutto, eppure, a mancare, è proprio la luce. E i mobili.

Tito si alza, cammina, allunga le braccia e si rende conto di essere nudo. La catenina d'argento con la croce gli pende sul petto magro, creando la via di fuga dell'intera immagine, della ripresa scenica e grossolana che lo vede fermo, in piedi, nudo e solo come un feto che galleggia nel ventre della madre. È poetico, primordiale, un ritorno all'origine che accompagna la mente nel giardino dell'Eden, con la mela che pende dai rami ed Adamo ed Eva che si fanno strada con cautela, nel timore di Dio e nel desiderio del peccato. Alle statue greche, sempre spoglie, sempre magnifiche, con il corpo solido e definito dell'eroe o quello sinuoso e voluttuoso della Venere. Delle ninfe che, pure, danzano sulla superficie dell'acqua. Poi la censura (i drappi, le foglie, le mani che afferrano la carne, nascondendola alla vista).

Si nasce nudi e si muore vestiti, truccati e pettinati, imbellettati nell'abito buono e col sorriso sulle labbra, esposti come statue di cera nella cassa da morto foderata di velluto, intagliata nel cedro, nel frassino, nel legno venato o monocolore, lucido od opaco. Una mostra che si allestisce in vita, mantenendo il proprio corpo, lavorando al proprio lascito, agli amici e ai figli in processione lungo la navata, con la testa china ed il vestito scuro.

In Tito, però, nel suo fisico magro ed emaciato, nelle ossa che sporgono e nell'ombra dei peli, non c'è niente di poetico. Si muore vestiti per camuffare il degrado della carne: una concessione che, a lui, è stata negata. Si trascina fino ad una delle pareti, premendo le mani sulle bolle che emergono dalla carta da parati. Le schiaccia, le unghie gialle che premono, ed è in quel momento, mentre la tempia aderisce alla superficie, che li vede: i suoi mobili. La televisione, il divano, il tavolo, il tappeto pieno di polvere e briciole su cui Ettore si sdraia ogni sera, tenendogli compagnia. L'elastico di gomma che tiene nascosto nel mobiletto del bagno pende verso il basso come se la forza di gravità si fosse invertita. Il soffitto è il pavimento ed il pavimento è il soffitto, anche se ci sta camminando sopra, se i piedi si contorcono ed arricciano sulla pittura bianca chiazzata d'umido. È tutto a rovescio, e nell'aria c'è quel profumo — quell'odore pungente che attraversa le narici e gli pugnala il cervello. Limoni. Il salone al contrario è l'anticamera dell'aldilà e Tito è nudo, infreddolito, instabile, ed aspetta il proprio turno col numeretto in mano. L'attesa è infinita e snervante, come le code di fronte alle poste o la via crucis accanto ai cessi pubblici appestati di piscio e gonorrea.

Cani randagiOpowieści tętniące życiem. Odkryj je teraz