Mi ritrovai faccia a faccia con un agente di polizia, con le mani serrate attorno a delle sbarre arrugginite e fredde.
Era un fottuto scherzo del destino, non c'era altra spiegazione.
<<Mi faccia uscire!>> strillai. Avevo la gola infiammata per quanto avevo urlato, il viso completamente rosso e contratto in una smorfia da oltre un'ora.
Ero sicura che, se non ci fossero state quelle sbarre a separarmi da quell'uomo, avrei colpito anche lui e i problemi sarebbe aumentati a dismisura.
<<Deve rispondere di violenza fisica nei confronti di quell'uomo>> borbottò con tono annoiato mentre continuava a giocare con il suo cellulare.
<<Lei non dice sul serio!>> scossi il capo, andando a sedermi su una vecchia panca di legno.
<<Stia buona, non complichi la sua situazione>> mi rifilò quella frase, senza neppure guardarmi.
Ero esausta, non sapevo cosa fare. Mi avevano concesso di chiamare una sola persona, William, e sperai che arrivasse il prima possibile.
<<La situazione l'hanno complicata i suoi colleghi. Sono solo degli incapaci maschilisti!>> tirai un calcio al vuoto, lo stesso che avevo dentro dopo quello che era successo. La mia mente non riusciva ad accettare di essere stata portata via in auto dalla polizia. Ero sicura che in casa mia fosse entrato il dottor Bernard dopo aver scoperto della mia denuncia, e nulla mi avrebbe fatto cambiare idea.
<<Ho letto il tuo fascicolo>> sospirò, guardandomi. <<Non verrai arrestata, puoi star tranquilla. Il tutto andrà nel dimenticatoio. Infondo non credo che tu aspiri ad entrare in qualche corpo militare>> ridacchiò nell'esatto momento in cui quella porta venne aperta, e un agente entrò con il mio migliore amico.
<<Me la pagherai anche tu!>> ringhiai fra i denti, ma al momento avevo altro a cui pensare.
William era sconvolto, corse nella mia direzione e cercò le mie mani fra quei pilastri grigi.
<<La prossima volta che ti viene in mente di fare una cosa del genere, chiama prima me>> mi sorrise nel modo più dolce del mondo, e mi resi conto di essere davvero tanto fortunata.
Quel tipo, l'accompagnatore di William, mi fece uscire comunicandomi che al momento il dottor Bernard non avesse ancora sporto alcuna denuncia.
Non salutai nessuno di loro, mentre uscivo da un posto non degno del suo nome.
La giustizia non era uguale per tutti, e ormai l'avevo capito.<<"Notte in cella" da aggiungere al curriculum>>.
<<Smettila!>>
<<Hai ragione, ci sei rimasta solo per cinque ore>> rise, posando un braccio sulle mie spalle.
<<Le cinque ore più lunghe della mia vita, mi chiedo come faccia mia madre a non mollare>> sussurrai, fissando le mie scarpe.
Nella maggior parte del casi, e sperai che fosse così, le persone venivano chiuse in una cella perché avevano realmente commesso un errore molto grave.
Al mondo piaceva chiamare quei posti "centri rieducativi", ma quelle stanze restavano celle, e spesso le persone che le abitavano non riuscivano ad essere rieducate.
Solitamente non provavo pena per nessuno, pensavo che ognuno ottenesse dalla vita quello che meritasse. Quindi, se avevi compiuto un crimine, era giusto essere puniti.
Tuttavia, quella breve esperienza, mi aveva anche fatto comprendere che gli errori delle persone non erano sempre uguali, e che un crimine poteva avere una motivazione diversa rispetto ad un altro.
La mia storia era molto complicata e volevo che William capisse fino in fondo cosa mi turbasse.
Conosceva i contorni di quel disegno, ma non il suo contenuto.
<<Mia madre ha ucciso Simon per proteggermi>>.
Mi fermai al centro della strada e lui fece lo stesso.
<<Lo so>> accarezzò il mio viso, le sue dite erano tiepide.
<<Ma non è stata condannata solo per quello...>> bisbigliai, chiudendo gli occhi per un attimo.
<<Non devi farti del male in questo modo. È stata una lunga giornata, devi solo riposare e provare ad andare avanti>> mi disse, ma io commisi un altro errore.
Me la presi con l'unica persona che davvero mi voleva bene.
<<Ma tu cosa ne sai?>>
I suoi occhioni mi guardarono come se gli avessi tirato uno schiaffo, e forse quello avrebbe fatto meno male.
<<Cosa ne sai di cosa si prova ad essere soli? Cosa ne sai di quello che ho dovuto sopportare, vedere e subire in tutti questi anni? Pensi che sia facile andare avanti?>>
<<Rose>> provò ad avvicinarsi. Nonostante tutto lui stava provando a giustificarmi, ma io non me lo meritavo un amico così. Meritavo di restare sola a crogiolarmi nel mio eterno dolore.
Alcune ferite erano destinate ad esistere per sempre, e il per sempre era un tempo troppo lungo per poter permettere ad una persona di provare a curarle ogni giorno.
<<Lasciami sola, Will>> mi scansai, e quello fu il momento in cui capii di aver commesso un grosso errore.
<<Tu vorresti che io lo facessi solo per continuare ad autocommiserarti e dire che nessuno ti vuole>> urlò con le lacrime agli occhi. <<Rose, non siamo tutti delle merde, non esistono solo i cattivi. Ci sono anche delle persone che ti amano davvero!>>
<<Hai letto la favola di qualcun altro, Will. Io ci tengo a te, ma...>>
<<Ma? In amicizia non esiste alcun ma, e quando lo capirai sarà troppo tardi>>.
Mi voltò le spalle, e seguii i suoi passi fin quando mi fu possibile.
Mi sentii come se avessi perso un pezzo del mio corpo.
Lui era stata l'unica persona ad aver insistito con me, ma io ero troppo sciocca per credere nell'esistenza di un fratello che non avesse il mio stesso sangue.
William mi voleva bene, io ne volevo a lui ma quella sera non avrei avuto la forza per farglielo capire.
Da qualche parte avevo letto che il tempo era un dono, e che non faceva sconti a nessuno. Se perdevi la tua occasione e lo facevi scorrere come un fiume in piena, lui non ti perdonava.
Avevo il brutto vizio di rimandare, di pensare che ci sarebbe stato un altro giorno per mettere a posto le cose, ma mi sbagliavo. Mi sbagliavo di brutto, e non avrei mai pensato di ripercorrere il tragitto commissariato-casa, a distanza di pochissimo tempo.
Fuori la mia porta trovai un post-it. In tutto quel caos avevo dimenticato di non essere al sicuro in quelle quattro mura, e avevo letteralmente dato buca alla persona che avrebbe dovuto cambiare la serratura.
Quella era stata una giornata di merda, l'ennesima da dimenticare, ma non avevo ancora fatto i conti con le sue ultime ore.
Kilian uscì di casa, e dalla sua espressione ero sicura che fosse successo qualcosa.
Poi mi notò, e si bloccò come se avesse visto un fantasma. L'idea che si fosse preoccupato per me non doveva sfiorarmi, eppure aveva sortito un effetto troppo forte.
<<Ciao>> dissi senza neppure rendermene conto, ed era paradossale come il sol vederlo fosse in grado di farmi dimenticare quello che mi era successo. Volevo dirglielo, volevo raccontargli della mia giornata, volevo che mi sgridasse per non aver denunciato il fatto che qualcuno fosse entrato in casa mia. Volevo che mi facesse notare quanto fossi stata stupida a trattare William in quel modo. Volevo che mi dicesse che anch'io potevo fidarmi di qualcuno, che potevo credere all'autenticità di quel rapporto.
Ma non accadde nulla di quello che avevo desiderato.
Accadde qualcosa che non avrei mai dimenticato, insieme a tante altre che non avevo ancora vissuto.
Doris comparve alle sue spalle, e il mio cuore si fermò per qualche istante.
<<Kilian dobbiamo capire se lei...>> mi vide, e qualunque cosa stesse per dire, rimase sospesa nell'aria.
Sentivo i suoi occhi bruciare il mio viso, ma non provai ad accertarmene. Come se non mi avessero appena spezzato il cuore, entrai in casa e silenziosamente mi nascosi nel mio mondo.
Nel mio inferno.
Ma lui aveva scelto di continuare ad infierire, non voleva lasciarmi in pace.
Non ancora.
Non ne aveva abbastanza, e purtroppo io volevo dimostrare a lui, e anche a me stessa, che ero in grado di ignorare il male che mi faceva.
Un male che, in confronto a quello che non avevo ancora provato, era una dolce carezza.
Bussò alla mia porta, e stampai sul mio volto una serenità che non mi apparteneva in quel momento.
Aprii e notai che Doris fosse già andata via, mentre lui mi guardava con occhi scalpitanti e bugiardi.
<<Ehi>> sussurrai, sostenendo il suo sguardo, e mi sentii quella forte. Quella che aveva il coltello dalla parte del manico.
<<Un tipo ha bussato alla mia porta e mi ha chiesto di te>> schiuse le labbra come se facesse fatica a respirare.
<<Lo so, avevo appuntamento con un fabbro, credo si chiamino ancora così>>.
Eravamo falsi, stavamo sostenendo una conversazione di cui non importava a nessuno dei due.
<<Perché?>> distolse lo sguardo quando mi pose quella domanda, e la parte sensitiva di me mi portò a raccontargli qualcosa che razionalmente non avrei mai pensato di raccontargli.
<<Perché il dottor Bernard è entrato in casa mia e ha rubato delle cose molto importanti. Sono andata da lui e l'ho preso a pugni. Ah, mi hanno anche rinchiusa in una cella per cinque ore>> aggiunsi, poggiandomi contro lo stipite della porta, e forse il mio cuore sperava nella reazione che stava per avere.
L'unico problema era che, quella reazione, non era dovuta ai motivi che pensavo io.
<<Cosa hai fatto?>>
Era sempre una sorpresa vedergli perdere il controllo, ma quella volta andò oltre e non riuscii a capire il perché.
<<Ho fatto quello che andava fatto. Lui, in qualche modo, è riuscito a rubarmi le chiavi di casa e a farne un duplicato. Vuole rovinarmi, e pensa che indagando sul mio passato riuscirà a dimostrare che sono io quella pazza>>.
Avevo un tono apparentemente calmo, ma stavo per perderlo.
<<Sei un'idiota!>> sbottò, facendomi sobbalzare. <<Anzi, sei davvero pazza. Prendi sempre le decisioni sbagliate, fai sempre la cosa sbagliata!>> scosse il capo, allontanandosi di qualche passo.
<<Ma come ti permetti?>> mi avvicinai, fermandomi ad un palmo dal suo petto.
Mi stava guardando e non avevo mai visto i suoi occhi così sconvolti.
Racchiudevano tante parole che non avrebbe potuto dirmi, ma avrebbe dovuto farlo. Avrebbe dovuto farmi capire cosa stava succedendo.
Andò a sedersi sulle scale, un posto che era diventato un po' nostro, con la testa fra le mani.
Il paradosso fu che io iniziai a preoccuparmi per lui, quando invece avrei dovuto essere arrabbiata con lui per le parole ingiustificate che mi aveva urlato contro.
<<Cosa hanno preso da casa tua?>> parlò piano, come se fosse stanco di farlo, ed io risposi come se non fossi più capace di ragionare.
<<Solo un fascicolo nel quale c'è scritto il processo contro mia madre e... l'unica denuncia che ho sporto contro il suo ex marito. Il secondo>> precisai, e mi chiesi come fossi riuscita in una sala frase a parlargli di quella cosa.
<<Hai denunciato il marito di tua madre>> guardava davanti a sé, fissava il vuoto senza mai spostare lo sguardo. Sembrava perso nei suoi pensieri. <<Perché?>>
Sussultai.
Non era la prima volta che ci trovavamo sul punto di iniziare quella conversazione, ma c'era sempre qualcosa che interrompeva il tutto.
Tuttavia, in quel preciso instante, sentivo che quel momento fosse arrivato e che nonostante i nostri scontri, le nostre offese urlate al vento, io fossi pronta a parlargliene.
<<Perché mi picchiava. L'ha fatto per anni e mia madre fingeva di non sentire>> andai a sedermi al suo fianco, e vidi le sue mani tremare un po'.
<<Le madri sono sopravvalutate>>.
Persino la sua voce era tremolante, tutto di lui stava crollando sotto i miei occhi. <<E poi? Poi cos'è successo?>>
Aspettai qualche secondo, aspettai che come al solito mi chiedesse di non continuare e andasse via. Ma non accadde nulla di quello che avevo immaginato, non quella volta.
Presi un lungo respiro, e convinsi me stessa di star facendo la cosa giusta. Sentivo che Kilian fosse rotto quanto me, e che quindi lui potesse capirmi più di chiunque altro, anche se non conoscevo la sua storia.
<<Mia madre e Simon truffavano le persone, affari belli grossi che in realtà non erano nulla. Curavano la forma nei minimi dettagli, ma nella sostanza non c'era molto. Erano degli investimenti falsi, si spacciavano per imprenditori ma erano soltanto dei delinquenti che si arricchivano sulla pelle della povera gente. Non ho mai capito cosa facessero nello specifico, ma dopo la morte di mio padre e anni di povertà, lei credeva di aver fatto fortuna incontrando un uomo come lui>>.
Le nostre gambe si sfiorarono, io lo guardai in attesa di una reazione. Una qualsiasi.
Ma la sua espressione era sempre la stessa. Continuava a fissare quel muro, e a stringere le mani in due pugni.
<<Poi, cos'altro è successo?>>
La sua voce roca era più bassa del solito, sembrava che faticasse persino a parlare.
<<Lei era completamente persa per lui, lo venerava nel vero senso della parola. Simon invece era soltanto un uomo di merda, e impazziva all'idea che mia madre potesse condividere quei soldi con me anche solo per comprarmi delle caramelle>>.
Una risata amara lasciò le mie labbra.
<<Proprio per quel motivo mi picchiò la prima volta. Mia madre mi aveva dato dieci euro, cazzo!>> dovetti fermarmi, non ero più in grado di andare avanti, ma ci pensò lui chiedendomi qualcosa che avrebbe dovuto farmi riflettere.
<<Lui ora dov'è?>>
Mi guardò, mi guardò dopo essersi imposto di non farlo per tutto quel tempo.
I suoi occhi erano lucidi, ed io non ero pronta neppure all'idea di vederlo piangere.
Per me era impossibile che lui ne fosse capace, e non perché lo odiassi come pensavo, ma perché non volevo che soffrisse per me.
Raccontai la parte peggiore della mia vita. <<Otto anni fa, come tante altre sere, mi ritrovai sola a casa con lui>> ci guardavamo, e mi aspettavo che lui mi prendesse le mani e le stringesse fra le sue. <<Non aveva mai avuto quel tipo di atteggiamento con me, mi picchiava e basta>> deglutii pur di non vomitare dopo la frase che avevo detto.
<<Ero appena uscita dalla doccia, e pensavo che stesse dormendo ma...>> mi bloccò, alzando una mano fra i nostri corpi.
<<Non sei costretta>> chiuse gli occhi, li serrò così tanto da scuotere il capo per il fastidio.
Ed io avrei dovuto capire che avrei dovuto fermarmi in tempo.
<<Non scenderò nei dettagli, ma mia madre mi ha salvata quella sera. Mi ha salvata da lui, per la prima volta in tutti quegli anni>>.
Una singola lacrima solcò il mio viso, e le sue dita tremolanti sfiorarono la mia guancia come se volesse cancellare con quel gesto il mio dolore.
Sentii sollievo, ma sarebbe durato poco. Stava per finire.
<<Lo ha ucciso>>.
Sgranai gli occhi ed ebbi la sensazione di cadere da un grattacielo molto alto, quando Kilian si alzò e scappò via senza mai voltarsi indietro.
<<Kilian!>> urlai il suo nome, ma non riuscii a seguirlo, né ad alzarmi. Era come se una forza magnetica mi stesse trattenendo su quel gradino, e quella forza mi aveva salvata dal compiere un altro errore.
Era una sensazione orribile quella che stavo provando, avevo la consapevolezza di aver raccontato una parte di me molto importante ad una persona che non voleva ascoltarla.
Provai a capire la sua reazione, provai a capire cosa lo avesse spaventato tanto, ma non riuscii a darmi una risposta plausibile.
Il mio cuore scalpitava contro il petto, e non ero in grado di farlo calmare.
Ero confusa, persa in quel vortice di dubbi che iniziarono a dilaniare il mio corpo dall'interno.
Avevo paura, una paura molto più forte di quella che mi provocava il dottor Bernard.
Una paura molto più forte di quella di non riuscire ad aiutare mia madre.
Avevo paura di essermi sbagliata, avevo paura di un dolore dal quale non mi sarei ripresa facilmente.
Avevo paura di affrontare la realtà, e scelsi di essere egoista.
Avevo bisogno di mia madre, e per una volta mi concessi il lusso di invertire i ruoli.
Ero io la bambina e lei l'adulta.
Alzarsi da quel gradino fu difficile.
Una parte di me voleva restare lì, al sicuro, ma sapevo di doverlo fare.
Sentivo che andare da mia madre si sarebbe rivelata la decisione giusta.

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Prigionieri del destino
Romance"Le persone come noi avevano tutte la stessa espressione. Era facile riconoscersi, era facile riconoscere l'angoscia nascosta dietro i nostri occhi. Quelli come noi avevano poche speranze, oppure iniziavamo a perderle quando smettevamo di far caso...